THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

28 February 2011

Milano Museo Novecento - Taccuini Internazionali propone



Milano
Museo Novecento 
Un futuro di sale meno anguste, più spazio, più qualità ricettiva


"Taccuini Internazionali" propone di aggregare l'Arengario gemello
unificando gli edifici, e di recuperare nuovi volumi sulle coperture.
Il progettista deve essere selezionato con concorso internazionale.


Poco dopo il grande, quasi insperato, successo dei primi giorni di apertura del milanese nuovo Museo del Novecento, già mentre TACCUINI INTERNAZIONALI ne esaltava i notevoli pregi progettuali, sia relativi agli allestimenti interni che alla struttura stessa delle collezioni ospitate, mentre anche il nostro magazine ne suggeriva il dilatarsi futuro oltre gli odierni confini, completandosi con l'edificio gemello, altre voci incominciavano ad azzardare proposte circa la possibilità di un recupero dell'altro Arengario e di un eventuale collegamento con esso.


 Milano, gli "Arengari" gemelli di piazza del Duomo, come appaiono oggi.
Sopra al titolo: 
il rendering evidenzia come potrebbe apparire il complesso "Museo Novecento", una volta uniti tra loro gli Arengari da un passaggio "a ponte", 
ad essi integrato alla quota degli ultimi livelli, ed elevati di un piano, 
per contenervi spazi da adibire a comode ricettività ristorative ed editoriali d'arte
(progetto Mercatali e Partners)



Poichè la geniale idea, che forse a nessuno sarebbe venuta in mente prima dell'apertura ufficiale del Museo, si sarebbe resa possibile forse proprio per via di quell'immediato successo, riteniamo utile rafforzarla mostrandovi un rendering che ve ne faccia valutare, prima ancora di svilupparne pienamente tutti i pro e i contro, almeno il senso complessivo che da essa scaturirebbe in termini generali, riproponendovela a qualche mese di distanza, se non altro per mantenere vivo un dibattito attorno ad essa che riteniamo utile prima di tutto alla causa di un turismo milanese internazionale che debba e voglia espandersi al di là della soglia appena accettabile dell'oggi, per una grande città delle dimensioni e dell'importanza di Milano, sia in termini economici e commerciali, sia in termini di cultura.

Ora che il Museo è stato salutato con estremo entusiasmo da tutti i soggetti possibili che attorno ad esso hanno gravitato, sia direttamente che indirettamente, apprezzandone l'iniziativa, il contesto, il contenitore ed il progetto, ed ora che è terminata la prima fase delle prove generali che hanno registrato un ingente afflusso di pubblico, ora che ci si affaccia alla fase della normalità, proprio da oggi che, dopo il periodo di gratuità alla visita, viene decisa l'applicazione d'un prezzo di ingresso di €. 5,00 a persona, può essere avviata, da parte di tutti i soggetti che se ne sentono investiti, la fase propositiva che sappia sancire definitivamente l'orientamento a completarne gli spazi, aggregandovi ed integrandovi il Secondo Arengario.

 Museo Novecento, disegno prospettico trasparente dal basso del modello tridimensionale del progetto.
Di questo progetto Taccuini ha parlato assai positivamente al momento della inaugurazione del Museo.
Esso non ha però potuto dare adeguata soluzione a taluni nodi, relativi alle problematiche espositive, proprio per le caratteristiche degli spazi e particolarmente per la loro esiguità, specie in talune sezioni.


 Al di là che, in tale prospettiva, l'idea di aggregarne l'edificio gemello affascina di primo acchito, in quanto logica di per sè, per il recupero ad univoca funzione di tutto il complesso realizzato nel 1936 dal gruppo costituito dagli architetti Piero Portaluppi, Enrico Griffini, Piergiulio Magistretti e Giovanni Muzio, a noi appare non solo molto sensata tale idea, prima di tutto per dare respiro alle collezioni del primo ventennio del XX secolo, costituita dalle opere di altissimo pregio che oggi sono costrette entro spazi assai angusti, ma anche per dare ampiezza stessa alle sale, sottolineando l'intrinseca qualità architetonica degli stessi Arengari, specie in quelle sale colonnate del primo piano, oggi terribilmente costrette, e quasi mutilate,  dalla distribuzione a pettine che vi è stata fatta dei pannelli espositivi.

 Museo Novecento, la bella Galleria delle Colonne ha purtroppo dovuto fare i conti con lo spazio insufficiente per le opere da esporre. Così è stata sacrificata la vista prospettica delle colonne marmoree intersecandola coi pannelli a pettine certamente invasivi ed architettonicamente poco congrui. E' chiaro che devono essere recuperati nuovi spazi per dare decente collocazione alle opere protonovecentiste
 

Si ritiene indispensabile perciò il recupero dei nuovi spazi non tanto (ma anche) per allargarne enormemente la componente esposta in permanenza rispetto a quella archiviata nei depositi, quanto soprattutto per espanderne la distribuzione dei quadri, dando a ciascuno maggiore autonomia e adeguatezza di collocazione rispetto a quella attuale, francamente assai costretta, specie in alcune sale  (vedi ad esempio la generale criticatissima collocazione del "Quarto Stato" di Pelizza da Volpedo).

Noi di TACCUINI INTERNAZIONALI ci limitiamo qui a dire quanto pensiamo, ossia che, immaginando un collegamento tra i due corpi di fabbrica gemelli, questo sia preferibile all'altezza del livello più alto, piuttosto che sotterraneo. Il primo motivo riguarda l'assetto dei piani preposti ai locali tecnici e ai luoghi di stoccaggio delle opere, che sarebbe preferibile non rendere conflittuali con quelli per il pubblico, ben separando questi da quelli. Il secondo motivo riguarda la maggiore necessità di spostamento del pubblico a livello delle grandi sale luminose dei piani alti, specie se, come noi pensiamo, potrà esistere un livello ancora superiore da destinare agli assetti funzionali di servizio e ricettività di ristoro. In questo caso certamente un collegamento prossimo alle terrazze si renderebbe indispenabile. Sì, questa infatti la proposta che avanziamo, che non sembra possa porre soverchi problemi di fattibilità: quella di creare una addizione nuova, d'analoga texture di quella del "ponte", su entrambi gli edifici, al posto delle attuali coperture "a padiglione".

 Il rendering che abbiamo posto in apertura, sopra al titolo, serve soltanto ad aviare un dibattito attorno a tutti questi aspetti del problema, non tanto da un punto di vista tecnico, il quale vedrà, al momento opportuno, avviarsi l'ovvia fase di costruzione di un concorso internazionale d'idee che l'importanza stessa dell'operazione impone all'amministrazione comunale, quanto, per il momento, da un punto di vista prettamente amministrativo e culturale, che faccia sì che gli amministratori individuino i criteri di fattibilità legati al necessario svuotamento dell'Arengario 2 dagli uffici che ora ancora lo occupano, e che i curatori si orientino circa tutte le possibilità insite in una siffatta operazione, circa i possibili progetti espositivi con le opere esistenti nelle raccolte pubbliche e con quelle private che potrebbero essere fatte confluire nel progetto di ampliamento. 




Con una elevazione di modestissima entità, che sembrerebbe non destare impatto capace di ledere diritti d'alcuno, si creerebbero due nuove enormi piattaforme, aventi superfici pari a quelle degli edifici stessi, che darebbero ricovero a nuove accattivanti funzionalità ad di sopra della piazza e degli importanti edifici circostanti, per collocarvi luoghi di ristoro d'ampia e comoda ricettività (ricordo, nel dire questo, quanto questo aspetto sia stato fortemente sentito, ad esempio, nel progetto della Tate Modern), per far sì che il Museo venga vissuto anche come un sito di piacevole relax, oltre che come luogo ove fruire cultura tout court, magari tra libri facilmente consultabili sui contenuti del museo. Un ristorante con self service, per esempio, sarebbe assai utile, accanto al risorante esistente che propone lusso a prezzi poco accessibili. Un bar dalle ampie luminose sale, tra la prima e la seconda parte della visita alle sale del Museo, diverrebbe sicura sosta da parte di tutti i visitatori (come avviene nella maggior parte, ormai, dei grandi musei d'Europa.

Auspichiamo rapidità di scelta e di organizzazione, affinchè tale raggiunta complezza museale milanese, assieme al Nuovo Museo d'Arte Contemporanea, sia realtà quando apriranno le porte dell'Expo, nell'ormai vicino 2015.

Forza quindi, istituzioni milanesi, datevi da fare!

Enrico Mercatali
Milano, 28 febbraio 2011

26 February 2011

"ARCA Arte Vercelli" - Arte italiana con Guggenheim

Umberto Boccioni, Controluce, 1910


1900 - 1961
arte italiana nelle collezioni 
Guggenheim
 
Mario Sironi, "Paesaggio urbano", del 1921 (dal catalogo della mostra, di "Giunti arte mostre musei")


Abbiamo oggi visitato la bellissima mostra che quest'anno ARCA Arte Vercelli propone, "1900-1961 arte italiana nella collezioni Guggenheim", dopo le straordinarie precedenti mostre già realizzate da Arca Città di Vercelli in collaborazione con la Guggenheim Foundation, tutte incentrate sul rapporto "storico" tra  la grande l'istituzione americana e il nostro paese.

Giorgio De Chirico, la torre rossa, 1913


La mostra che vediamo quest'anno (aperta fino al 5 giugno 2011), promossa dalla Regione Piemonte in collaborazione con l'assessorato alla cultura del Comune di Vercelli, è stata curata da Luca Massimo Barbero all'interno del prestigioso contenitore costituito dalla chiesa di San Marco,  ed in particolare  dentro allo speciale scrigno in acciaio e vetro che vi è stato allestito all'interno proprio per ospitarvi queste iniziative d'alto livello culturale.

Mario Sironi, Il cavallo Bianco, 1919

Vorremmo che fosse dato risalto all'assieme di queste tre componenti, nello scenario d'un turismo che mostra di gradire sempre di più il binomio "cultura storico artistica" e "intelligenza creativa "  nell'esporre: l'evento in se stesso, che deve esprimere ottimo livello di preparazione e di selezione delle opere, il contenitore storico nel quale possano scoprirsi valori di profondo radicamento culturale storico-artistico e l'allestimento che abbia la qualità di produrre relazione stretta tra le due precedenti componenti. Questa mostra, come anche la precedente trilogia che l'ha preceduta, incentrata sulla figura di Peggy Guggenheim, possiede totalmente queste caratteristiche, ed è perciò che  a pieno titolo merita assolutamente d'essere promossa quale meta di rilievo presso  il turista colto che si appresta a programmare un viaggio nella nostra regione, compreso quello provenente dall'estero. In più, oltre a tutto, deve aggiungersi il piacere di fargli scoprire Vercelli, città d'arte ancora poco accessibile  nei circuiti internazionali, le sue piazze e i suoi mercati, i suoi insigni monumenti e la sua pregevole cucina. Aspetti questi ultimi che meritano una nostra attenzione in altra sede.

Un angolo della mostra, con Burri e Afro. Il "cielo" della teca ove si organizzano le mostre di arte contemporanea, può aprirsi oppure chiudersi alla vista delle volte dalla chiesa di San Marco. L'effetto osmotico tra i due spazi tra loro complementari è di grande respiro scenografico.


Ma veniamo ora ad Arca e alla mostra di oggi, alla chiesa di San Marco che contiene l'Arca, che a sua volta contiene l'arte italiana scelta dalla Grande Mela.
Questo prezioso assieme di valori storico-artistici, uno dentro l'altro, la "teca" che contiene l'Arca che contene lo "scrigno", è ciò che più ci ha colpito, ed in particolare il fatto che tutto sia in fieri, ovvero che la chiesa ed i suoi suggestivi affreschi siano tuttora in corso avanzato di restauro, rendendone visibili i lavori, che lo spazio delle mostre evolva offrendo produzioni di sempre più alto prestigio, e che l'"Arca" che li separa si renda disponibile, all'occorrenza, ad evidenziarne l'osmosi, essendo dotata di un soffitto mobile, capace di aprirsi e chiudersi a seconda delle esigenze di luce ed ombra, di collegamento o separazione che si decida d'adottare, anche nel corso delle stesse manifestazioni.

Un altro angolo della mostra, alla cui inaugurazione è stato presente numerosissimo pubblico


Il congegno della teca dell'Arca desta meraviglia, pur nelle sue modeste dimensioni (m. 29 x 7,5) e predisponendo essa di uno sviluppo espositivo sia all'interno che all'esterno di 374 metri quadrati di superficie, consente al visitatore di coniugare arte moderna ed arte antica,  mettendone a confronto le produzioni della cultura laica con quelle dell'arte sacra, di quell'unicum, nel panorama figurativo piemontese, costituito dalla "Genealogia della Vergine", che rappresenta uno dei migliori esempi d'affresco medievale, dotati d'una tipicità sua propria tanto spiccata, oggi presenti nella nostra area geografica.

Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913. Questa è una delle tre versioni di questa scultura: essa appartiene alla collezione Guggenheim. Un'altra versione è esposta al Museo Novecento di Milano. La terza è alla Tate Modern di Londra.


Nella teca, oggi, la mostra curata da Luca Massimo Barbero è dedicata all'arte italiana che affascinò Solomon Guggenheim determinandone la scelta, nella formazione della prestigiosa sua collezione. Abbiamo perciò modo di capire a fondo il gusto americano per le correnti artistiche italiane che hanno attraversato i primi anni del secolo scorso, specialmente quelle milanesi, dal futurismo di Boccioni, di Sironi, di Carrà, ma poi anche di italiani a Parigi, come Modigliani. Una scoperta, quella di Solomon, che ha certamente condizionato ogni successivo evento artistico del moderno, sino ai giorni nostri.

 Peggy Guggenheim nell'anno 1957, accanto a "La nostalgia del poeta" di Giorgio De Chirico,  promuove la nuova moda bigness, 
indossando il gran cinturone e gli orecchini di Alexander Calder (foto tratta dal catalogo della Mostra, di "Giunti arte mostre musei")


Abbiamo anche la possibilità di farci un'idea di ciò a cui il padre di Peggy e Peggy stessa stavano per  votarsi, affezionandosi a tale arte, acquistandone poi le opere per ingrandire la loro collezione, mentre il pioniere dell'architettura americana, Frank Lloyd Wright, stava per progettare e costruire il tempio dell'arte newyorkese negli anni '50, da loro stessi commisionatogli.  Scopriamo perciò Burri, Capogrossi, Fontana, Vedova, quali artisti da loro prediletti, dopo quelli che avevano costituito le avanguardie novecentesche, oltre ai De Pisis e Morandi, già appartenuti alla Collezione Gianni Mattioli, ed approdati a Ca' Venier dei Leoni, quale prestito a lunga scadenza, nel 1997. Di sicuro il Maestro americano che stava costruendone il Tempio (l'Arca primigenia) che li avrebbe contenuti, già se ne immaginava la collocazione lungo il perimetro dell'immensa spirale degradante che il suo genio stava orchestrando, mano a mano che il suo progetto andava progredendo.

Il pubblico è particolarmente attratto dal "Ritratto di uno studente, opera databile tra il 1918 e il 19 di Amedeo Modigliano. Essa, assieme all'opera di Capogrossi, è icona della mostra, essendo stata posta in posizione centrale rispetto all'intero percorso


Ci ha spiegato il curatore le motivazioni che lo hanno indotto ad introdurre nell'allestimento una logica cronologica contraria alla norma, partendo dagli anni '60 per procedere a ritroso sino all'inizio del secolo lungo i percorsi della mostra, quasi una scoperta delle origini della modernità, a partire dalla grande e bella tela di Capogrossi, intitolata "Superficie 512", che hanno segnato anche la formazione di uno specifico gusto artistico nazionale, ben riconoscibile internazionalmente, nelle tappe del centenario dall'Unità ad oggi, che celebrerà il 150° anniversario.

Giorgio Morandi, "Natura morta" del 1954


Le tele, i disegni, le sculture in mostra sono tra le più belle e significative del novecento, e che della grande collezione Guggenheim si potessero qui collocare: citiamo, ad esempio, tra le opere a noi più care, tra le ben 8 opere esposte di Mario Sironi, il Paesaggio Urbano del 1921, tra le più capaci di rappresentare la efficace e sintetica figurazione dell'artista milanese. Vogliamo ricordare poi, bellissima, la "torre rossa", di De Chirico, del 1913, metafisica piazza italiana superbamente orchestrata con poche simboliche figure d'alto imprinting dechirichiano. Di Umberto Boccioni è stupenda la "Periferia", del 1909, ma ancor più forse, "Materia" del 1912. Molto fresco e moderno è anche il disegno "Controluce", del 1910, da noi molto apprezzato, specie nel contesto di questa mostra.

 Umberto Boccioni, "Materia", superbo grandioso olio del 1912, con riprese del 1913, di dimensioni notevoli (226 x 150 cm)
(dal catalogo della mostra, di "Giunti arte mostre musei")


Decisamente di notevolissimo livello i Morandi tra cui spicca "Natura morta" del 1954, per le insolite dimensioni, delicata e soffice come forse nessun'altra del suo autore, e poi tipicissimi i Vedova, i Fontana e i Burri  presenti, credo tra i quali spicchi particolarmente il "Grande Nero di Plastica, di quest'ultimo, del 1964, nel quale la materia povera si rigonfia e quasi ribolle per mostrare quanto l'evento squisitamente materico sappia dare all'arte la propria individuale e nuova interpretazione, di senso quanto materia per la forma. Giuseppe Capogrossi esonda da sè nella mostra per l'essere gigantesco e ben collocato all'ingresso di ogni percorso, ma è opera davvero superiore alle tante altre sue, per respiro, e capacità d'impianto scenotecnico.
Medardo Rosso, Gaetano Previati e Adolfo Wildt, rispettivamente in "Ecce Puer" del 1906, "Fanciulli con cesti di frutta" del 1916 e "Pianto sulla porta chiusa" del 1915, aprono e chiudono l'intena mostra, assieme a Capogrossi, così saldandone gli estremi.

Il pubblico affolla la presentazione del curatore della mostra, Luca massimo Barbero, dell'intera iniziativa. Sullo sfondo il grande quadro di Giuseppe Capogrossi "Superficie 512", 200 x 300 cm, acquistato da Solomon Guggenheim ma mai giunto nella sua sede naturale. Oggi, per diverse vicissitudini, 
è a Roma, al Museo Nazionale d'Arte Moderna


Crediamo possano essere assai utili, mostre di questo genere, assieme al contesto descritto, della stuttura che le contiene, e della città tutta che l'ha saputa esprimere e che ne crea il contesto territoriate e urbano, tutto da conoscere e riconoscere, ad un turismo che alimenti altro e nuovo turismo, ad una economia che tutti sappiamo essere fondamentale per il nostro paese, proprio all'insegna di quell'"Economia della conoscenza" che anche l'assessore vercellese Giorgio Fossale ha saputo riconoscere e valorizzare con questa iniziativa, e che egli stesso vorrebbe si legasse alla produzione di nuovo e possibilmente ampio valore aggiunto. Certamente egli ha ben lavorato in tal senso avendo saputo creare nella sua città un modello che andrebbe riprodotto in tante altre "minori" realtà locali italiane.


La"Teca" dell'Arca, nella chiesa vercellese di San Marco, con il suo soffitto apribile e chiudibile che evidenzia le volte della chiesa ricca di preziosi affreschi. Il progetto è dell'architetto torinese Ferdinado Fagnola. 
La teca (l'Arca) è un parallelepipedo di piccole dimensioni. Essa misura soltanto 29 x 7,5 m e consente un percorso all'interno dei suoi ambienti lungo 110 m. Nonostante queste dimensioni contenute, dovute alle dimensioni della chiesa che la contiene, nella quale pure il pubblico entra per asmmirarne le pareti perimetrali, essa appare del tutto appropriata ad accogliere mostre di medie dimensioni, avendo ciò dimostrato, non solo in quest'ultima mostra della quale parliamo in questo articolo, ma anche in tutte le mostre che l'hanno preceduta, sempre allestite con misura e buon gusto, con armonia ed equilibrio

Noi faremo certamente in modo che ciò possa avvenire, utilizzando i mezzi di cui disponiamo, per dare il nostro contributo alla promozione della realtà culturale vercellese, e per indicare in questa città un polo di significative iniziative, entro un contesto di storia urbana ed artistica dalle origini lontane.

Enrico Mercatali

Vercelli, 26 febbraio 2011
(foto di Enrico Mercatali, se non indicato "dal catalogo della mostra)

18 February 2011

Alessandro Antonelli, il rivoluzionario architetto dell'800, è di casa tra Novara e Torino


Alessandro Antonelli, cupola di San Gaudenzio a Novara. In primo piano Casa Bossi Desanti
(foto di Enrico Mercatali)

ALESSANDRO ANTONELLI
LA CUPOLA NOVARESE DI SAN GAUDENZIO


"Essa costituisce un unicum nella storia dell'architettura mondiale e rappresenta una delle strutture murarie più ardite mai concepite"

di Elena Rame



Alessandro Antonelli - Quarto progetto per la cupola di San Gaudenzio, 1855 Novara, 
Archivio di Stato

Taccuini Internazionali ospita con piacere questo scritto, promosso dall'Agenzia Turistica di Novara nel 2008, col fine di divulgarne il contenuto (anche in lingua inglese, e condividendone lo spirito) allo scopo di riverberarne le finalità turistico-culturali anche oltre i nostri confini nazionali


L'idea di fornire un coronamento monumentale alla basilica di San Gaudenzio era nell'aria da tempo immemorabile, ma sarà solo dopo il 1825 che si creeranno le condizioni ideali per poter finalmente mettere mano al progetto. In quell'anno con un "brevetto" il Re Carlo Felice di Savoia concede alla Fabbrica lapidea, organo che ancora oggi cura la Basilica, il diritto di usufruire del ricavato di alcune imposte; nell'arco di qualche anno si riescono così a reperire i fondi per poter dare inizio ai lavori. Nel 1840 i fabbricieri prendono contatti con l'Antonelli e gli affidano la costruzione della cupola e il rifacimento della facciata della basilica: questo secondo punto non verrà mai completato e verrà realizzata solo la porta in noce con rosoni e teste in ferro fuso ancora oggi in uso.

La costruzione della basilica avvenne tra il 1577 e il 1656 su disegno di Pellegrino Tibaldi. Il campanile, progettato da Benedetto Alfieri, fu eretto fra il 1753 e il 1786. La cupola, che è il simbolo di Novara e che raggiunge i 121 metri di altezza, fu aggiunta tra il 1844 e il 1888 da Alessandro Antonelli. Nella basilica lo Scurolo custodisce l’urna con i resti di san Gaudenzio, primo vescovo della città. Le cappelle ospitano importanti opere pittoriche di Gaudenzio Ferrari (1475-1546), di Tanzio da Varallo, del Moncalvo, del Morazzone, del Fiammenghino (XVI-XVII secolo).


La prima versione della cupola è molto diversa dalla "cupola-torre" di 121 metri che oggi svetta sulla città, frutto di diversi progetti e di numerose piccole, grandi modifiche apportate dall'architetto durante gli oltre quarant'anni di cantiere.
L'estero della struttura è scandito da una "geometria di vuoti e di pieni" e da due colonnati che contribuiscono a dare la sensazione di ancora maggiore slancio; si riesce inoltre ad in tuire la successione di cerchi che la compone e che gradualmente sale verso il cielo.
La cupola è sostenuta da quattro coppie di archi in muratura che, disposti a quadrato, vanno ad innestarsi sui pilastroni d'angolo del presbiterio tardo cinquecentesco.


 La cupola antonelliana novarese vista dall'alto, dominante la città


In anni in cui altrove sta prendendo piede l'"architettura del ferro", l'Antonelli sceglie di utilizzare ben 2046 metri cubi di mattoni di provenienza esclusivamente locale, e dà un saggio dell'abilità delle maestranze novaresi.

L'impresa costituisce un unicum nella storia dell'architettura mondiale e rappresenta una delle strutture murarie più ardite mai concepite. I documenti del cantiere narrano di come l'architettoimponesse nei suoi capitolati che ogni materiale fosse di primissima qualità, così da evitare che la stabilità della sua "invenzione" venisse compromessa.

 Novara, San Gaudenzio: visione della cupola antonelliana dal basso


I lavori verranno completati entro 1887, anno in cui il vescovo potrà celebrarne la conclusione durante la festività patronale. Le operazioni di consolidamento di volte e sottofindazioni proseguiranno comunque fino all'anno successivo.
Anche la Cupola, come il Duomo, è in parte incompiuta: non verrà mai realizzato l'affresco su più livelli raffigurante il Trionfo di San Gaudenzio, così come non verranno mai collocate le statue a completamento del "guscio". Entrambe le proposte saranno abbandonate a causa della carenza cronica di fondi e dei rapporti, spesso burrascosi, tra l'architetto e gli amministratori.
Nella saletta attigua all'ingresso nella basilica, sede della Fabbrica Lapidea, sono esposti due splendidi modelli lignei originali utilizzati dall'Antonelli all'interno del cantiere.

Elena Rame

08 February 2011

A Milano una mostra di delizie, dedicata a Giuseppe Arcimboldo


La statua alta 5 metri, in vetroresina, dell'artista contemporaneo americano Philip Haas, giganteggia davanti alla mostra milanese.
Esso è un omaggio ad una delle più note opere di Giuseppe Arcimboldo: l' "Inverno", ed inoltre ne rappresenta la culturale attualità.

(Foto di Enrico Mercatali)


ARCIMBOLDO ARTISTA MILANESE TRA LEONARDO E CARAVAGGIO

Giuseppe Arcimboldo, L' "Inverno", del 1563, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Milano, a Palazzo Reale, dal 10 febbraio al 22 maggio 2011

Giuseppe Arcimboldo, "Slitta con pavone", penna, inchiostro blu e acquerello, cm 15,7 x 18,75
Gabinetto Disegni e Stampe, Uffizi (Firenze)

L'artista moderno, anticipatore d' avanguardie sette, otto e novecentesche, è protagonista d'una mostra che richiamerà a sè visitatori da tutto il mondo
In questa immagine "Il bibliotecario", Olio su tela cm 97 x 71, dal Castello di Skokloster, Styrelsen, Svezia

Inaugura il prossimo 10 febbraio, a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, una mostra tanto attesa, quanto eccellente, per la provenienza delle opere, e per il prestigio dell'equipe che l'ha curata e che ne ha realizzato il progetto.

Giuseppe Arcimboldo, Autoritratto, 1575, Penna ed acquerello blu su carta, cm 23 x 15,7, Narodni Galerie, Praga

La direttrice della Pinacoteca del Kunthistorisches Museum di Vienna, il prestigioso museo che ne possiede la maggior parte delle opere, assieme al Museo parigino del Louvre ne è la curatrice, in collaborazione con la qualificata composizione del Comitato Scientifico formato da Giacomo Berra, Giulio Bora, Chiara Buss, Silvio Leydi, Roberto Miller, Giuseppe Olmi, Caterina Pirina, Francesco Porzio e Lucia Tomasi Tongiorgi.

Giuseppe Arcimboldo, Progetto per costume "Il Drago", penna, inchiostro blu e acquerello su carta, 29 x 19 cm. Gabinetto Disegni e Stampe, Uffizi (Firenze)

Ciò che questa illustre compagine di esperti si è proposto è quello di ricomporre il contesto nel quale ha preso origine l'arte arcimboldiana, nel quale il panorama culturale ed artistico della Milano leonardesca, in pieno Cinquecento, ha avuto il suo massimo peso. Essa inoltre si è proposta di sondare le radici culturali nel quale si è mosso il giovane artista, nell'ambiente milanese, che lo hanno portato ad indagare e a sviluppare il tema della natura morta, che tanta parte lo ha formato, che è il tema che ha tanto avuto seguito poi, con Caravaggio, nel diffondersi come parte integrante di un metodo d'indagine che è all'origine di quel copione arcimboldese che ha avuto tanta fortuna nei secoli successivi in tutta europa, fino a diventare essa stessa matrice delle avanguardie artistiche novecentesche.


Giuseppe Arcimboldo, "L'Acqua", Dipinto ad olio del 1566, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Specie animali che compongono l'allegoria (vedi in basso la legenda):
PESCI: 1. Murena Murena (Teleostei)- 2, Mola Mola, Pesce luna (Teleostei)- 3, Hippocampus Hippocampus, Cavalluccio marino (Teleostei)- 4, Salmo Trutta (Trota adriatica) (Teleostei)- 5, Belone belone, Aguglia (Teleostei)- 6, Sciaena Umbra, Corvina (Teleostei)- 7, Exos Lucius, Luccio (Teleostei)- 8, Lota Elongata, Molva Occhiona (Teleostei)- 9, Cyclopterus, Ciclottero (Teleostei)- 10, Cyclopterus, Ciclottero (Teleostei)- 11, Botide (Teleostei)- 12, Labride, Labrus Tardus, Tordo (Telostei)- 13, Triglide, Capone (Teleostei)- 14, Triglide Capone (Teleostei)- 15, Agonus, Sorcio di Mare (Teleostei)- 16, Pegasus (Teleostei)- 17, Raja, Raja Clavata, Razza (Teleostei)- 18, Testa di un Teleosteo (Teleostei)- 19, Pesce Gatto- 20, Testa di Teleosteo- 21, Testa di Teleosteo dopo essicazione- 22, Testa di Teleosteo- 23, id.- 24, id.- 25, Pinna dorsale di Callyonimus, Dragoncello- 26, Pinna caudale di un Teleosteo- 27, id- 28, Branchie di un Teleosteo- 29, Pelle di Scylioirhinus canicula, Gattuccio, Selaci- 30, Squalo con barbigli (Eterodontide)- 31, Luccio, con branchie soprannumerarie.

ANFIBI: 32, Rana Temporaria- RETTILI: 33, Caretta caretta, Tartaruga Caretta (Chelonidi)- MAMMIFERI: 34, Pelagius Monachus, Foca Monaca (Pinnipedi)- 35, Testa di Foca (Pinnipedi)- 36, id.- 37, Figura di un Pinnipede somigliante a un anfibio- INVERTEBRATI: CNIDARI: 38, Corallium Rubrum, Corallo Rosso (Esacoralli)- 39, Profilo di Penna di Mare (Pennatulacei)- PLATELMINTI: 40, Planaria, Turbellari- ANELLIDI POLICHETI: 41, Anellidi della famiglia dei Phillodocidae- 42, Anellide non identificabile- CLITELLATI: 43, Irudineo, Sanguisuga marina- MOLLUSCHI: 44, Tritonium nodiferum, Tritone nodifero (Prosobranchi)- 45,Buccium, Boccino (Prosobranchi)- 46, 1d- 47, non identificabile- 48, Limacci (Polmonati)- LAMELLIBRANCHI: 49, Arca, Arca (Filibranchi)- 50, Cardium, Cardide (Eulamellibranchi)- 51, id- 52, Perla di Ostrica- 53, Perle di Ostriche- CEFALOPODI: 54, Sepia Officinalis, Seppia comune (Decapodi)- 55, Octopus, Polpo (Ottopodi)- CROSTACEI: 56, Squilla Mantis, canocchia (Oplocaridi)- 57, Astacus fluviatidis, gambero di fiume, Peracaridi Decapodi- 58, Palaemon, (cotto), Gamberetto, Perecaridi Decapodi- 59, Cancer Pagurus, Dormiglione, Peracaridi Decapodi- 60, Astacus Astacus, Gambero di fiume- ECHINODERMI: 61, Asteroideo- ECHINOIDEI: 62, Corona costituita da raggi il cui aspetto ricorda gli aculei di un Cidaroideo. OSSERVAZIONI: Il numero delle specie rappresentate è leggermente superiore al numero di specie identificate. Alcuni animali sono rappresentati in modo troppo msommario per permettere una diagnosi sicura. Si noterà che i diversi animali non sono rappresentati alla stessa scala. Alcini animali rappresentati non corrispondono a forme note. Taluni caratteri anatomici appaiono volontariamente modificati, in particolare gli occhi, che acquistano un carattere umanoide, sia per il mutamento della forma che per l'esagerazione delle dimensioni (Scheda tassonomica stabilita col concorso del Laboratorio di Ittiologia del Museo di Storia naturale di Parigi, di Pierre Noel e di Jean Depeche - Parigi)

Pur essendo, questa quasi lineare interpretazione critica ormai universalmente condivisa, alla base del successo anche più recente che le più importanti mostre organizzate sull'arte di Arcimboldi hanno avuto, ciò che oggi, in questa mostra milanese, l'equipe organizzativa intende fare è indagare nella direzione opposta, ovvero sulle ragioni che hanno portato gli effetti arcimboldiani ad originare tanto numerose imitazioni ed ispirazioni ad essi successive, guardando piuttosto al prima che al dopo, ovvero alle origini del suo percorso.

Giuseppe Arcimboldo, Il Giurista, 1566, Olio su tela, cm 64 x 51, Statens Konstsamlingar Gripsholm Slott, Svezia

Ecco perchè così determinanti sono le indagini lombarde, i legami con la cultura attorno alla quale Leonardo stesso ha operato, le officine artistiche milanesi nel periodo granducale del Moro, il confronto tra i disegni giovanili di Arcimboldo con l'illustrazione naturalistica lombarda tra i '4 e il '500, e l'importante ruolo che ha l'indagine scientifica sistematica, che ha avuto in Leonardo il massimo teorico, i cui studi volti a "tipizzare" le espressioni umane in base ai generi, all'età, ai caratteri, ecc., costituiscono la summa filosofico teoretica che in quegli anni è materia principalmente dell'artista, la cui figura riassume in sè ogni qualità di speculazione. E' nel fervore di questi elementi che cresce la figura d'Arcimboldo, il quale lo fa suo al punto da dedicarvicisi in modo quasi esclusivo, ponendo, certo inconsapevolmente, le basi di un futuro essere dell'arte assai longevo e persistente.

Giuseppe Arcimboldi, "Vertunno", ritratto di Rodolfo II d'Asbirgo (Imperatore del Sacro Romano Impero fra il 1576 e il 1612),
eseguito nel 1590, Olio su tavola cm 70,5 x 57,5, Sloklosters Slott, Svezia

E' questa l'occasione, con Arcimboldi in mostra, per approfondirne i temi, i caratteri e soprattutto il piacere visivo che vi si accompagna!

Forse anche per questo la mostra è anche una occasione per avvicinare i ragazzi all'arte, perchè essa sà far loro sorridere. Così dice infatti, per promuoverla presso i giovani visitatori, il "Giorno dei ragazzi":
"Arcimboldo artista milanese -Tra Leonardo e Caravaggio": Arcimboldo nacque a Milano nel 1527, al secolo Giuseppe Arcimboldi, figlio di Biagio, pittore alla Fabbrica del Duomo. Figlio d'arte dunque, ma classico caso in cui il pargolo supera il padre-maestro per fama e bravura. A Milano conobbe l'arte di Leonardo, dal quale ha tratto ispirazione, si dice, soprattutto dalle sue caricature di teste umane; caricature che l'Arcimboldo elabora in modo originale, usando i frutti della Natura per comporle. Estro che lo porta a essere tra i primi a lanciare un nuovo tema pittorico, quello della "natura morta".
Giuseppe Arcimboldo, "l'Ortolano", Natura morta reversibile, 1590, Olio su tavola, cm 35 x 24, Museo Civico Ala Ponzone, Cremona

Qui per me il motivo dei sorrisi: non perché tale natura sia ridicola in sé, ma per la fantasia di essere rappresentata in modo così "vivo"! Comunque, proprio il tema della natura morta a sua volta ispirerà Michelangelo Merisi, il Caravaggio, nato in questa stessa città e che alle origini della famiglia (Caravaggio, appunto, in provincia di Bergamo) deve il suo soprannome.
Giuseppe Arcimboldo, "l'Ortolano", Natura morta reversibile, 1590, Olio su tavola, cm 35 x 24, Museo Civico Ala Ponzone, Cremona

A Palazzo Reale oltre ai dipinti più famosi dell'Arcimboldo (il ciclo dei Quattro Elementi, delle Quattro Stagioni, le teste "reversibili", cioè guardabili anche sottosopra) ci saranno anche bozzetti e disegni di Leonardo e Girolamo della Porta, oltre a un'opera di un artista contemporaneo, l'americano Philip Haas: 5 metri di vetroresina, ovviamente ispirati al bizzarro pittore milanese."

Giuseppe Arcimboldo, " Il Fuoco " , 1566, Olio su tavola cm 66,5 x 51, Gemaldegalerie, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Così invece si dice su "La Repubblica: "È entrato nella leggenda dell'arte con i suoi trionfi di frutta e verdura, cascate di mele e peperoni rossi orchestrati sulla tela a formare volti di nobili titolati, dame con gli occhi a forma di gamberetto, cavalieri con elmi di melanzane e cortigiani con gorgiere di asparagi ed erbette. Arcimboldo, il pittore del Cinquecento milanese, s'era inventato un genere in bilico fra la ritrattistica e la natura morta.
Giuseppe Arcimboldo, progetto per costume: "Cuoco", penna, inchiostro blu e acquerello su carta, cm 30,5 x 20, Gabinetto Disegni e Stampe, Uffizi, Firenze

Cosa per cui è diventato famoso, ma che ha contribuito a consegnarlo alla storia come un grande caricaturista, anche se, in realtà, la sua vicenda è ben più complessa. Lo rivela la mostra “Arcimboldo – Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio” a Palazzo Reale prodotta dal Comune di Milano e Skira in collaborazione con il Kunsthistorisches di Vienna (da cui arrivano molte opere esposte). Capolavori suoi e di autori che ne intrecciarono la storia, utili a restituire il clima di un'epoca segnata dall'industria del lusso nelle più ricche corti d'Europa.
Orari: 09.30-19.30 (lunedì 14.30-19.30; giovedì e sabato 09.30-22.30). Fino al 22 maggio.

Enrico Mercatali
Milano, 8 febbraio 2011

02 February 2011

Memorie di Adriano


MEMORIE DI ADRIANO

- Ivrea, la città-fabbica democratica di Olivetti -
Una meta piemontese che il turismo internazionale deve saper rilanciare




Sopra al titolo: il moderno ampliamento delle Officine ICO, realizzate a Ivrea tra il 1939 e il '42 da Figini e Pollini. Il clima creatosi ad Ivrea in quegli anni era tale che i dipendenti che entrano nella fabbrica sono pervasi da un nuovo sentimento di appartenenza.
Qui sopra: All'uscita della nuova "Valentina" disegnata da Ettore Sottsas, portatile leggera degli anni '60, la campagna promozionale si avvale di nuove e sofisticate tecniche comunicative, basate sì sui gusti del pubblico, ma anche sul diffondersi unanime d'un condiviso bisogno di cultura nuova, che sapeva ribaltare in positivo antiche paure e frustrazioni.



Il Museo-Ivrea vive da qualche anno ma non sembra così vivo come lo si sarebbe voluto, dato che non molto se ne sente parlare se non si è eporediesi. La stampa è da tempo che ignora o quasi l'argomento e il silenzio totale incombe sulle promozioni turistiche. Chissà poi all'estero com'è la situazione, dato che poco appare dai baedekers, ed ancora meno forse nei periodici dedicati al solo turismo: che non sia più considerata meta turistica degna di nota?... neppure dal turismo cosiddetto culturale?, che non siano faccende di puro specialismo, ancora, che riguardi gli architetti, o giù di lì.

Luigi Figini e Gino Pollini, disegno di un tratto della lunga facciata in acciaio e vetro della nuova
fabbrica Olivetti di Ivrea, su via Jervis, la cui costruzione è stata vviata alla fine degli anni '3o.
La nuova architettura razionalista italiana, ispirata dalle prime esperienze concrete del Bauhaus,
e dalle nuove teorie internazionali dei CIAM (congressi internazionali di architettura moderna),
muove i suoi primi passi proprio ad Ivrea, nutrendosi d'entusiasmo e diffondendo vitale ottimismo.


Noi di Taccuini Internazionali riteniamo che la situazione, se è così come descrita perchè a noi così appare, non sia davvero lusinghiera, e che occorra fare di più per rendere omaggio al grande sogno democratico olivettiano, e per accrescere interesse di tipo non solo specialistico, ma turistico di larga fascia, attorno alle sue realizzazioni , quelle realizzazioni che fecero di Ivrea, a partire dagli anni '30, una fucina di iniziative che coinvolsero le logiche produttive, gli ambienti di lavoro, le strutture sociali, l'idea stessa di tempo libero, così che il tutto potesse tradursi in una nuova idea di città, in una nuova architettura, ma anche e soprattutto in una nuova idea di società, e in nuovi stili di vita per le classi lavoratrici divenute protagoniste del divenire stesso dei nuovi assetti sociali.

La nuova Corporate Identity Olivetti, (Xanti Schawinsky , Giovanni Pintori, Marcello Nizzoli, Renzo Zorzi, Walter Ballmer, Giovanni Ferioli), ha tovato, a partire dagli anni 50 il supporto di una grafica e una cartellonistica pubblicitaria capace di una vera innovazione del gusto che ha reso il prodotto Olivetti identificabile per la prima volta come prodotto dalle qualità tecnologiche elevate appetibile ed accessibile alle grandi masse. In questo manifesto esso diventa un oggetto-regalo.

Oggi tutto ciò appare talmente lontano, nel tempo e nello spazio, e digerito dalla storia, che sembra impossibile come un capitolo tanto importante, non solo della cultura industriale, sociale ed economica, del nostro paese, ma anche e fondamentalmente artistico, a livello planetario, abbia potuto essere tanto trascurato negli ultimi anni, così da non risultare oggi più così appetibile quale meta turistica italiana di primaria importanza, come invece dovrebbe essere (soprattutto da quando non sono più solo le bellezze dell'antichità o della storia dell'arte propriamente detta, a determinare i percorsi del turismo internazionale).

Un ritratto di Adriano Olivetti davanti ai nuovi ampliamenti della ICO, costruita sui nuovi valori della città-fabbrica democratica, da lui stesso propugnati e diffusi attraverso le pagine della rivista Comunità, da lui stesso fondata nel 1952, diretta da Renzo Zorzi

"Mamivrea" si autodefinisce "Museo virtuale" in quanto esso non è fatto di opere appese ai muri di una istituzione museale o di una galleria d'arte, ma è la città stessa che si fa museo di sè stessa, composta come è in gran parte da edifici che sono divenuti parte integrante della storia dell'architettura moderna nel mondo, e simbolo stesso di un'epoca, quella che Adriano Olivetti ha fortemente marchiato della sua forte personalità di imprenditore illuminato, esperto in tema di urbanistica, architettura e design, e propugnatore di una "etica della fabbrica" che portasse in primo piano le tematiche sociali come parte integrante di un nuovo modo di produrre.

Ivrea, l'ala più vecchia delle officine ICO (Ingegner Camillo Olivetti, padre di Adriano, fondatore dell'azienda eporediese)

Fu un periodo, quello nel quale Adriano, continuando l'opera del padre, mise mano in prima persona alla sua grande "utopia della realtà", nel quale si avviarono ad Ivrea le produzioni di avanguardia nel campo della strumentazione per l'ufficio, con le calcolatrici e le macchine per scrivere che riempirono i mercati di tutto il mondo, capaci di unire, in prodotti unici nel loro genere, l'eccellenza tecnologica alle qualità estetiche, nate dalla collaborazione, che fu tra le prime in tutti i mercati mondiali, tra tecnici e designers di fama mondiali.

Una dei primi manifesti pubblicitari della Olivetti, all'epoca delle officine ICO (Ing Camillo Olivetti), 1896

Fu appunto in quell'angolo di mondo che era Ivrea ove nacque il design moderno, e dove si sperimentarono i più innovativi criteri della nuova urbanistica, basata sui principi sanciti dai CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna), e dove si trovò campo fertile per la sperimentazione delle teorie della moderna sociologia olivettiana. Fu quello anche il campo nel quale si avviarono gli esperimenti più efficaci nel campo della comunicazione e della promozione, secondo tecniche fino a quel momento mai sperimentate in modo tanto concentrato e ricco di contrubuti autorevolissimi.

La Divisumma MC 24 del 1956, privata della sua scocca. E' stata la calcolatrice elettromeccanica più venduta nel mondo. La calcolatrice elettromeccanica scrivente Divisumma 24 è il risultato di uno straordinario e complesso insieme di meccanismi cinematici. Progettata da Natale Capellaro con design di Marcello Nizzoli e prodotta dal 1956, la Divisumma era all'avanguardia tecnologica per i suoi tempi; ebbe uno straordinario successo commerciale in Italia e sui mercati internazionali. L'innovazione tecnologica e l'eccellenza del prodotto consente di praticare prezzi molto remunerativi: nel 1957 la Divisumma è venduta a 325.000 lire, quando l'acquisto di una FIAT 500 costava 465.000. Per la Olivetti la macchina, rimasta sul mercato per circa 15 anni, si rivela una vera miniera di redditività: il margine lordo, infatti, almeno nei primi tempi si avvicina al 90%. (Fonte: archivio storico Olivetti)


La rivista Comunità, edita dalle Edizioni di Comunità, fondate da Adriano Olivetti nel 1946, fu il banco di prova per i più illustri nomi dell'epoca in campo sociologico, economico, didattico, artistico, urbanistico, architettonico, grafico, progettuale, storiografico, nello sperimentare le nuove teorie.

Ivrea, gli stabilimenti Olivetti in una cartolina storica, ove è rappresentata la via Jervis, con le nuove officine di Figini e Pollini del 1939-42. Numerose Fiat "Topolino" e "Giardinetta" già presenziano sui marciapiedi, delineando l'immagine consumistica che la modernità stava assumendo anche agli occhi di una classe lavoratrice che, fino a quel momento, non aveva neppure potuto pensare di potervi appartenere. Il prodotto Olivetti, in questo scenario, assumeva le medesime valenze.

In campo sociale Adriano fu sempre ispirato all'idea di rendere il benessere dei suoi dipendenti parte integrante delle nuove filosofie applicate alla fabbrica. Fu tale il suo impegno che nel 1956 Adriano Olivetti ridusse ufficialmente l'orario di lavoro dei suoi dipendenti dalle 48 ore alle 45 ore settimanali, cosa che oggi fa addirittura rabbrividire confrontando la situazione socioeconomicha e politica che stiamo vivendo con quella di allora. E tale risultato fu una delle componenti del benessere generale che la fabbrica voleva offire alla città, che quasi per intero era impiegata all'Olivetti, assieme ai grandi benefici di cui i cittadini potevano godere, anche fuori dall'orario di lavoro.

Olivetti Studio 42, del 1935, disegnata da Xanti Schawinsky con Figini e Pollini. Essa fu la prima vera e propria portatile della storia

Era quella una fucina di idee che si incrociavano sulle pagine della rivista mensile e che si misuravano su un campo reale di messa a punto che era appunto Ivrea con le sue fabbriche, con i suoi uffici, con le sue nuove scuole, con i suoi nuovi centri sociali, con le sue strutture per lo svago ed il tempo libero, con i suoi nuovi quartieri residenziali nati attorno alle esigenze biunivoche della grande fabbrica e delle classi lavoratrici in via di emancipazione.

Manifesto pubblicitario della Lettera 22, disegnata da Marcello Nizzoli nel 1950. Essa divenne famosa perchè fu lo strumento di lavoro di Indro Montanelli (grande giornalista e scrittore italiano, 1930-2006). Il manifesto è di Giovanni Pintori.


Del museo virtuale si parla ad Ivrea da quando, nel 1996, l'amministrazione cittadina ha incaricato alcuni studiosi di procedere alla messa a punto di un progetto che vedesse divenire reale la volontà di far rinascere l'interesse per le opere che avevano fatto di Ivrea, a partire dagli anni '30, un luogo unico al mondo. Solo nel 2000 si potè ufficialmente dare avvio a tale iniziativa mediante l'attività dell'associazione Archland, destinataria del compito di catalogare le opere, progettarne il museo, curarne la comunicazione e gestirne i servizi, per vedere poi nascere il Museo Virtuale dell'Architettura Moderna di Ivrea nel 2001 (Mamivrea.it). Nel 2007 si sono raggiunti 3000 visitatori al mese, superando la soglia di 90 visite al giorno.

Di Figini, Pollini e Fiocchi questo è il terzo ampliamento delle officine Olivetti, del 1949, caratterizzato dai frangisole in cemento

In cosa consiste la collezione del Museo? Essa è costituita prevalentemente dagli edifici dell'architettura moderna e razionalista creata da Adriano Olivetti con gli architetti Figini e Pollini. Ma prima di queste la vecchia fabbrica che fece Camillo Olivetti nel 1896. Dall'architettura razionalista le parti più significative sono: il primo ampliamento delle vecchie officine ICO (Ingegner Camillo Olivetti), realizzate da Figini e Pollini tra il 1934 e il '39. Tra il '39 e il '42 il secondo ampliamento, caratterizzato dalla lunga facciata completamente vetrata su via Jervis, anch'esso di Figini e Pollini. Tra il '47 e il '49 il terzo ampliamento ne completò la lunga facciata su via Jervis (Figini e Pollini) e ne aggiunse una parte interna (architetto Fiocchi).

Una foto della corte interna del Nuovo Centro dei Servizi Sociali su via Jervis, realizzato da Figini e Pollini nel 1959. Sullo sfondo si vedono le officine del Primo Ampliamento del '39-'41. Questo edificio denota già la nuova tendenza brutalista del cemento a vista.

Dal '57 al '62 la nuova ICO, e il nuovo corpo di collegamento completarono gli interventi su progetto di Figini e Pollini, mentre i nuovi interventi furono avviati dall'architetto Vittoria, col Centro Sudi ed esperienze, con la nuova centrale termoelettrica. Poi nel 1959 Figini e Pollini fecero il nuovo centro sociale e nel 1961 Gardella fece la mensa.

Ignazio Gardella, la nuova mensa Olivetti, realizzata nel 1961. Completate le officine, l'asilo nido ed il nuovo Centro Sociale, Ivrea incomincia a dotarsi, per iniziativa di Adriano Olivetti, di nuove strutture, quale questa mensa, di uffici, e di numerosi quartieri residenziali e commerciali finalizzati a rendere completa in ogni sua parte la città-fabbrica, secondo i più avanzati modelli teorici. Ivrea diviene in pochi anni banco di sperimentazione di nuove politiche territoriali mostrandosi al mondo quale modello planetario

Oltre all'area della grande fabbrica, a Borgo Olivetti, nel 1941, sorsero l'asilo nido, e nel '42 i primi alloggi, per mano ancora di Figini e Pollini. Dal 1942 al 1974 venne realizzato il quartiere di Castellamonte, con numerosi nuclei di alloggi sperimentali, per la mano di Figini e Pollini, di Nizzoli e Oliveri e di Gabeti e Isola, tutti sommi architetti italiani che ebbero incarico direttamente da Adriano Olivetti. Tra il 1964 e l'88 vennero realizzati i principali edifici per uffici, per mano degli architetti Bernasconi, Fiocchi, Nizzoli e Valle.

Centro di Servizi Sociali e Residenziali Est (divenuto poi Hotel La Serra) degli architetti veneziani Iginio Cappai e Pietro Mainardis. L'edificio, che per molti motivi può ricondurci al Beauburg parigino di Renzo Piano, è stato eseguito ad Ivrea circa 10 anni prima.

Dal 2008 ad oggi si sono date avvio, al Mamivrea (http://www.mamivrea.it/collezione/cronologia.html), alle sezioni riguardanti il design Olivetti ed i prodotti della comunicazione grafica e pubblicitaria.

A coronamento dell'attività che Adriano Olivetti svolse, nel 1957, la General Menagement Association di New York gli assegna uno speciale premio per "l'azione di avanguardia nel campo della direzione aziendale internazionale".

Considerato da tutti un capolavoro, il negozio che Adriano Olivetti ha personalmente voluto a Venezia, in Piazza San Marco, dalle mani di Carlo Scarpa. Dopo decenni di abbandono, oggi il negozio è stato restaurato e dato in gestione al FAI che lo aprirà al pubblico

La Olivetti arrivò ad avere più di 36.000 dipendenti, di cui metà all'estero.

Ivrea, 5 febbraio 2011
Enrico Mercatali