THE MAGAZINE OF THOUGHTS, DREAMS, IMAGES THAT PASS THROUGH EVERY ART OF DOING, SEEING, DISCOVERING

24 August 2011

Hangar Bicocca. La scultura monumentale di Fausto Melotti, retaurata e ricollocata



"La Sequenza"
di Fausto Melotti
  ad Hangar Bicocca - Milano


di Enrico Mercatali



La scultura era stata già esposta al Forte di Belvedere di Firenze e nel parco di Villa Arconati a Bollate (Mi)





La monumentale scultura "La Sequenza", di Fausto Melotti (1901-1986), artista milanese di fama internazionale, dopo un attento restauro svolto sotto la supervisione dall’archivio Fausto Melotti e con la magistrale consulenza di Arnaldo Pomodoro, è stata resa nuovamente fruibile al pubblico ed esposta nell’area giardino realizzata all’ingresso di  "Hangar Bicocca", lo spazio espositivo recentemente dato alla luce a Milano nell'area Bicocca.

La Sequenza è una delle opere più significative che l’artista ci abbia lasciato, testimonianza della sua lunga e complessa ricerca formale basata su una conoscenza profonda della storia e sui naturali rapporti armonici e linguistici che la pura forma sa derivare e interagire dalle esperienze musicali.

Realizzata nel 1981 è un’opera monumentale, lunga 22 metri, alta 7 e larga 10. E’ composta da una serie di lastre di ferro verticali e scalate in profondità su tre piani ondulati che richiamano, in una tensione al movimento, lo scorrere delle dita su una tastiera musicale. La scultura era  già stata esposta al Forte di Belvedere di Firenze e nel parco di Villa Arconati a Bollate.





Siamo stati a visitare l'Hangar Bicocca a Milano, mega spazio espositivo realizzato nell'area della Bicocca, presso i nuovi edifici realizzati da Vittorio Gregotti, ed inserito nell'ambito di Progetto Bicocca quale oggetto industriale interessato da recupero. 
L'Hangar al suo interno, oltre al gigantesco spazio espositivo, che si suddivide in due spazi di diversa altezza, ha un book-shop ed uno sp'azio bar-tavola calda.
L'esterno è stato sistemato a giardino, dotato sul davanti di un ampio parcheggio. Il giardino, specie nella sua parte anteriore, consta di diverse specie arboree di notevole effetto scenico, nella sua semplice e moderna sistemazione. Al centro vi domina la grande scultura in ferro, inusuale nelle sue dimensioni per il Maestro, ma non nelle sue partiture geometrizzanti e perfettamente armoniche, di grande effetto plastico e scenografico.
A noi è apparso da lontano come uno sterminato reperto megalitico, dallo straniante, affascinante  connubio con le presenze paleoindustriali e le moderne figure architettoniche del contesto. Un  mix il cui clima metafisico è stato ed è capce di dare ragione all'idea melottiana d'armonie surreali anche casuali, nate dalla materia reale per farsi surreale nella visione che la luce, i riverberi, i colori e l'atmosfera che il contesto mutevole ingenera per caso in infinite varianti.





Fausto Melotti nasce a Rovereto, città dell' Impero austro-ungarico, dove aveva frequentato la Scuola Real Elisabettiana, ma allo scoppio della prima guerra mondialesi trasferisce a Firenze dove porterà a termine gli studi liceali. Nella città toscana Melotti, in possesso di qualità espressive naturali e di una manualità molto pronunciata, entra in contatto con letterati e artisti d'avanguardia e ha la possibilità di osservare da vicino le opere degli artisti del rinascimento fiorentino quali Giotto, Simone Martini, Botticelli, Donatello, Michelangelo. Essenziali furono poi i suoi rapporti con la città natale, e con il fervente panorama culturale che animava Rovereto in quegli anni: lì vivevano Fortunato Depero, l'architetto Gino Pollini - tra i fondatori del razionalismo italiano grazie al gruppo 7 -, il famoso compositore Riccardo Zandonai e altri. Successivamente si laureò al Politecnico di Milano in ingegneria elettrotecnica. Dopo vari studi musicali decise di dedicarsi alla scultura: studiò prima a Torino nello studio di Pietro Canonica, poi, dal 1928 all'Accademia di Brera di Milano, sotto la guida del grande scultore milanese Adolfo Wildt. Lavorò alla Richard Ginori con l'amico Gio Ponti.






Il suo stile muta negli anni seguendo però sempre una sua personalissima ricerca, tesa ad articolare lo spazio secondo ritmi dal sapore musicale; così anche le sue sculture più tradizionali legate a Novecento, come l'opera in gesso presentata alla V Triennale di Milano del 1933, o le sculture preparate tra Roma e carrara nel 1041 per l'Esposizione Universale dell'Eur di Roma, sono piene di quel suo particolare amore per la poesia dei materiali. Evidenti quindi i suoi legami con Novecento, con l'arte Metafisica, ma soprattutto con il Razionalismo e con gli artisti legati alla Galleria il Milione di Milano, Lucio Fontana su tutti. La sua scultura avrà sempre più un carattere mentale, e contemporaneamente subirà una sintesi, nei modi e nei materiali: ceramica o gesso, teatrini polimaterici, ma soprattutto le sue leggerissime sculture in acciaio, saranno intrisi di una vena surreale e ironica. Fino alle estreme conseguenze nei lavori seguiti al riconoscimento ufficiale che verrà solo nel 1967, grazie ad una mostra a Milano. Insegnò e diresse anche la Regia Scuola d'Arte di Cantù, ora Istituto Statale d'Arte I.S.A. Cantù.





La sua era una scultura fatta di elementi lineari e geometrizzanti dai quali era esclusa, come da lui esplicitamente dichiarato, ogni "modellazione" in favore id una assoluta purezza formale ( e non è escluso che a tale ricerca di una misura e di un ordine razionali abbiano contribuito la sua laurea in ingegneria e i suoi studi di musica).
Si dedicò intensamente anche alla ceramica, raggiungendo esili di raffinatissima qualità (Lettera a Fontana, 1944, Milano, coll. priv.) e realizzò, già a partire dal 1931, la serie dei Teatrini in terracotta colorata e polimaterici (Il sonno di Wotan,1958, Trento, Mus. d'Arte Mod. e Cont.).
Ma è dal '70 , cioè quando era prossimo ai settanta anni, che pur senza contraddire ai suoi principi di occupazione armonica dello spazio dell' astrattismo, che liberò una autentica e inconfodibile vena poetica con delle fragili e aeree costruzioni fatte di sottili fili di rame, di trasparenti retine metalliche, di mobili straccetti di garza e dai significanti titoli come ad esempio Il Vento nel capanno, Il suono del corno nella foresta, La luna e il vento, La Neve.





La vastissima produzione di Melotti è stata sempre animata da una doppia, ma non contraddittoria tensione: da un lato verso la forma allusiva, simbolica (L'autoritratto, 1962, Milano, coll. priv.; Il suono del corno nella foresta, 1970, Milano, Coll. Mulas), dall'altro verso l'invenzione ritmica e strutturale (A piombo, acciaio, 1968; Arte del contrappunto plastico n. 1, acciaio, 1970).
Le sue creazioni sono di incantevole grazia dove la scultura, se di questa ancora può trattarsi, o non piuttosto, l'"antiscultura", diviene gioco calcolatissimo di parvenze e di spazi, sorridente e talvolta lievemente ironico; ma "un gioco - come afferma Melotti - che quando riesce è poesia".






Complessa personalità artistica, Fausto Melotti (Rovereto/TN 1901 - Milano 1986) ha percorso un lungo e ricco cammino culturale che ha per tappe fondamentali Firenze, Torino, Milano e naturalmente la sua città natale.
La sua formazione ha inizio, come ha precisato Giuseppe Appella (in Fausto Melotti 1901-1986, Roma - Milano 1987, pp. 11-19), a Firenze dove porta a termine gli studi liceali avendo lasciato Rovereto allo scoppio della prima guerra mondiale.
A Firenze, città di cultura europea, lavorano numerosi artisti e letterati d'avanguardia, ma soprattutto sopravvivono testimonianze storiche e artistiche del passato: Melotti ha la possibilità di ammirare nei musei fiorentini le grandi opere d'arte dei maestri italiani quali Giotto, Simone Martini, Botticelli, Donatello e Michelangelo.
Carlo Belli (1903-1991), che lo raggiunse tempo dopo, ricorda che il cugino, molto maturato, gli trasmise lo spirito di quella città. Un giorno al Museo del Bargello egli riuscì a fargli comprendere il San Giorgio di Donatello: " 'Vedi che silenzio circola intorno ad essa'. Rimasi folgorato. Accepivo il concetto di silenzio come potenza nella scultura". E ancora dopo tanto tempo, Carlo ritiene che per loro adolescenti quello fu "un soggiorno formativo ... asse fondamentale attorno al quale si metteranno in rotazione le nostre prime acquisizioni umanistiche".
Il biennio trascorso in un'altra città toscana come Pisa, permette al giovane Melotti di assimilare lo spirito delle notevoli opere architettoniche, delle sculture romaniche e gotiche (Nucola e Giovanni Pisano), contemporaneamente ai corredi preziosi del Medioevo (capitelli e rilievi, mosaici e smalti, tessuti e avori). Tutto un mondo iconografico e stilistico che affiorerà qua e là nelle sue ceramiche smaltate e nei suoi teatrini.




E' soltanto dal 1919 che si può senz'altro affermare avvenga la piena integrazione di Melotti nella vivace vita culturale della sua Rovereto "ricca di luci vive". Città al tempo famosa per aver dato i natali al filosofo Antonio Serbati Rosmini (1797-1855), del quale i concittadini leggevano le opere quasi per dovere, e a due personaggi "europei", che di fatto i giovani di allora non conobbero direttamente, il pittore futurista giramondo Iras Baldessari e il poeta decadente Lionello Fiumi.
Belli racconta con orgoglio che i giovani roveretani spinti da una voglia di rinnovamento, volevano "rifare il mondo" a modo loro, evitando però la solita protesta che appunto caratterizza i ragazzi, sfruttando invece la "fantasia" erano sempre alla ricerca di trovate geniali che potessero generare scalpore nell'opinione pubblica.






Melotti stesso in qualche intervista ricorda con entusiasmo le numerose personalità che vivevano nella sua città e ne facevano un centro all'avanguardia in numerosi campi intellettuali: nelle arti figurative, nell'archeologia, nella musica e nella letteratura. Primo fra tutti il futurista Fortunato Depero (1892-1960), il già maturo architetto e pittore M. Sandonà, l'architetto G. Tiella, i futuri architetti A. Libera, G. Pollini e L. Baldessari, M. Untersteiner luminare della filologia classica, l'archeologo F. Halberr, P. Orsi studioso della Magna Grecia, il poeta R. Prati, i letterati S. Branzi e C. G. Stoffella (che riforniva questi giovani artisti di testi, presi in Francia, di P. Valery, J. Cocteau, M. Proust e A. Gide), il famoso musicista R. Zandonai.
Molti di questi personaggi trascorrevano intere mattinate a discutere nel retrobottega della Farmacia Cobelli: vi partecipava quasi sempre Belli, mentre Melotti solo a volte per il suo carattere più ritroso; essi rimanevano incantati soprattutto dai racconti delle spedizioni degli archeologi Orsi e Halberr, dai resoconti dei loro scavi rispettivamente a Locri (Calabria) e nell'antica Creta e restavano suggestionati dai miti di quegli antichi popoli.
Anche dal punto di vista dell'educazione scolastica, Rovereto era all'avanguardia. E' particolarmente interessante ricordare che lì dalla seconda metà dell'Ottocento esisteva una "Scuola Reale" (denominata in seguito "Elisabettina"), frequentata anche da Melotti, dove si dava spazio alle nozioni tecniche e alle attività grafiche favorendo le attitudini artistiche degli allievi, e dalla quale si accedeva direttamente al Politecnico.
La prima esperienza significativa del giovane Melotti è comunque la frequentazione di Fortunato Depero, che a quel tempo era "entrato nella storia della pittura moderna, avendo a padrini Balla e Boccioni; pur compagno delle nostre folli serate lo consideravamo già un personaggio", e che soprattutto nel periodo compreso tra il 1919 e il 1924, si dedicò con passione al settore delle arti decorative.





Il manifesto Ricostruzione futurista dell'universo (1915) rivela con quanto entusiasmo i firmatari, Balla e Depero, si proponessero di creare una nuova realtà, introducendo nel quotidiano, degli oggetti in grado di "ricostruire l'universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente", trovando "degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo stesso, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra aspirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto". Una componente fondamentale di tale dichiarazione è la volontà di servirsi di tutti i generi di materie e materiali (fili metallici e di cotone, stoffe, cartoni e vetri colorati, reti metalliche, specchi ecc.) per costruire i complessi plastici, purché essi mantengano un carattere appariscente.
Senza dubbio questo aspetto, congiunto al proposito dei due futuristi di imporre la creatività dell'artista a tutto l'ambiente dell'uomo, nello spazio urbano, nel costume in genere, impressionò i giovani di Rovereto, ai quali Depero seppe inoltre trasmettere la sua carica vitale, alimentata da una felice fantasia. Egli aveva costituito dal 1919 nella cittadina trentina una Casa d'Arte con il suo nome, sistemata l'anno seguente nei più spaziosi e luminosi saloni di Casa Keppel.
Si mette in moto la macchina della Casa d'Arte proprio quando Melotti torna a Rovereto più frequentemente, mentre inizia a studiare ingegneria a Milano.
Depero, che veniva aiutato dalla moglie nel suo laboratorio artigiano, incoraggiava i giovani che gli stavano accanto a intraprendere la strada delle arti applicate affinché esse potessero divenire degne compagne delle arti figurative in genere.
Con la manualità e per mezzo di materiali umili considerati allora 'antiartistici' - come è spiegato nel manifesto del 1915 - egli riusciva a esprimere tutto il suo linguaggio: uno stile sintetico e lineare fatto di colori forti campiti a zone, di forme geometrizzate a incastro, cariche di senso della dinamicità. In particolare nelle creazioni degli anni Venti è presente una valenza metafisica, come bene aveva individuato Carlo Belli in Kn (Milano 1935): "Depero dipingeva, senza saperlo, i più bei quadri metafisici prodotti da questo movimento. ... (Il corteo della gran bambola - La casa del mago - Città meccanizzata dalle ombre - Villaggio sconosciuto) visioni spettacolose di un naturalismo magico superiore allo stesso De Chirico. Il Depero militava più che mai allora nel futurismo, ma la Musa metafisica era nell'aria"; e come spiega più recentemente P. Fossati: "Depero era ... investito pure lui da una sorta di osmosi tra futurismo e musa metafisica, ... l'onda montante e sostanziale che impregnava l'atmosfera dinamica di Depero di una scenografia tesa e misteriosa è quella metafisica, e non era difficile smarrire i connotati del futurismo ormai sfigurato in essa" (in L'immagine sospesa …, Torino 1971, pp. 179-180).






L'aria metafisica che influenza le soluzioni di Depero, distaccandolo forse proprio a sua insaputa dagli altri futuristi, deriva probabilmente anche dalle sue esperienze in campo teatrale: egli infatti dipinge figure astratte tipo marionette, manichini, e le inserisce in spazi cubici colorati.
Secondo G. Marzari e P. Setti i giovani roveretani pur ammirando le novità estetiche di Depero (si veda ad esempio il già citato Kn di Belli) tuttavia "mostrano una sostanziale indifferenza per la produzione artigianale della Casa d'Arte", deducendo che "i temi folkloristici dei prodotti dell'arte applicata, deludono certamente chi come Belli, Melotti e Pollini ha proiettato i propri interessi in direzione dell'arte come avanguardia" (in Fausto Melotti, Luigi Figini, Gino Pollini, Renata Melotti, Rovereto 1984, p. 15).
Questa ipotesi sembrerebbe convalidata leggendo un'affermazione dello stesso Melotti, scritta in occasione della morte dell'illustre concittadino: "... laboratorio di cuscini e arazzi, nei quali - egli - disperdeva e volgarizzava la sua pittura", ma si deve pensare che lo scultore non si sta esprimendo con lo spirito di un tempo, ma da uomo maturo che guarda al passato. Eppure nello stesso articolo sembra trasparire una certa emozione nel racconto della preparazione della Veglia futurista che fu organizzata il 10 gennaio del 1923. Scrive infatti: "C'eravamo prestati tutti, lavorando a tagliare e incollare carte, cartoni colorati, a imbastire pupazzi, fiori, aggeggi che avrebbero frastornato la sale nelle quali ... l'intera borghesia del Circolo Italia sarebbe stata sottoposta all'elettroshock futurista".
E uno shock sicuramente lo ebbero le persone che intervennero al veglione, per i colori squillanti delle stanze e dell'arredamento, per le strane figurazioni (cavalieri galoppanti, enormi fiori) che coprivano le pareti, per le stalattiti fosforescenti di tanti colori (a forma di piramidi capovolte) che piovevano dal soffitto, e per l'originale trovata finale che vedeva gli organizzatori uscire improvvisamente vestiti da 'locomotive'. Un vero e proprio spettacolo teatrale con musica e luci che Melotti sembra ricordare con piacere rivivendo quello stesso coinvolgimento di allora. Per lui fu un impulso notevole partecipare a queste discussioni, ed operare in questi settori dell'arte applicata quando ancora non si era impegnato seriamente in alcuna attività artistica.






Nulla, però, può dirci se l'artista quando era a Rovereto, tra le varie arti decorative, venne a conoscenza della tecnica della ceramica, ma partire da un periodo così remoto è estremamente importante, in quanto ci permette di inquadrare l'ambiente culturale roveretano, e di capire quali pensieri il giovane Melotti avesse potuto maturare sull'arte.
E' a Torino, dopo una permanenza di circa tre anni (1925-27), che Fausto Melotti impara il mestiere di scultore seguendo gli insegnamenti dello zio Carlo Fait (1877-1968) che lavorava presso lo studio del famoso Pietro Canonica (1869-1959), e contemporaneamente frequentando l'Accademia Albertina. Egli non ricorderà, negli anni seguenti, con piacere questa esperienza perché giudicata priva di un reale valore artistico; essa fu però ugualmente importante se non altro perché determinò la scelta di dedicarsi seriamente alla scultura.
Quando Melotti, già laureato, si stabilisce a Milano (1928), dopo la breve parentesi torinese, decide di seguire definitivamente quella che era la sua inclinazione.






Hangar - Bicocca - Filosofia del nuovo spazio espositivo milanese:

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Insomma, uno strumento in mano ai noi stessi fruitori amanti dell'arte.

Milano,  26 luglio 2011


Testo e Foto di Enrico Mercatali
(dedico queste fotografie a Maria Elena)

19 August 2011

"Castellaccio"- Lago Maggiore: Ruderi di castello medievale presso Lesa. Sito d'alto valore ambientale, da ben conservare





"Castellaccio" di Lesa
Lago Maggiore

Cenni storici. Caratteri del sito. 
Proposte per la conservazione e l'eventuale utilizzo 





Tra Arona e Stresa le coste del Lago Maggiore sono oggi caratterizzate da una maggiore frequenza di piccole insenature e dalle relative spiagge. Particolarmente ampia è quella che si trova alla foce del fiume Erno, nei pressi di Solcio (Lesa). Essa è incorporata nella penisola pianeggiante che da millenni, proprio dove l'estuario del breve ma generoso fiume si allarga creando terreno alluvionale, ospita ampi campi coltivabili e profumati frutteti.

Da millenni questa è una piana (una delle pochissime presso l'alveo del lago) che possiede queste caratteristiche peculiari, le quali hanno determinato l'economia del luogo, e da millenni essa presenta anche, presso i suoi ambiti rivieraschi, oltre alla grande spiaggia presso l'estuario, anche altre spiaggette, le cui dimensioni in larghezza sono variabili in funzione dell'escursione altimetrica del lago, causata a sua volta da numerosi fattori tra cui la piovosità e la necessità d'acqua che l'agricoltura a valle nella pianura padana richiede.





Presso una delle spiagge della penisola si ergono, appariscenti per dimensione planimetrica anche se occultate dal verde rampicante spontaneo che le invadono, le mura perimetrali di un castello d'antiche origini, che, dai reperti che al suo interno vi sono stati rinvenuti, parrebbero altomedioevali. Le mura che oggi possiamo ancora vedere non risalgono a quel periodo così lontano, ma ad un'epoca tardo rinascimentale, che vide la ricostruzione a scopo non tanto e non più soltanto militare-difensivo, ma soprattutto amministrativo, essendo strategica la zona, a quei tempi, per ottenere gabelle daziali e per riscuotere, dai numerosi natanti che solcavano allora le acque del lago tra le acque svizzere e quelle del Ducato di Milano, preziose tasse.

I traffici commerciali su acqua erano allora asasi più sviluppati di quelli di oggi, e le mercanzie pesanti transitavano sul lago come fosse esso un grande fiume che dalle alpi portava nel cuore della grande città, adottando percorsi allora modernissimi, in parte naturali ed in parte artificiali, già dotati di sistemi di chiusa all'avanguardia per renderli rapidi ed efficienti. Fu Leonardo da Vinci che vi sovrintese, ai Navigli che fecero di Milano una delle più efficienti città commerciali di quei tempi, sia nei progetti che nelle direzioni lavori, sotto Lodovico il Moro, per accrescere la mobilità, specie delle merci pesanti, in ingresso quotidiano in Milano.

"Qualcosa di simile alle nostre odierne autostrade", era quell'insieme di passaggi d'acqua capaci di coprire centinaia di chilometri (fugace ed efficace intuizione del Prof. Arch. Guido Canella, grande conoscitore del Lago Maggiore e della sua storia), ma con l'ostacolo del dazio lesiano, che comportava oneri e tempi morti. Sembra che fosse strategico quel sito, per le Casse del grande ed esteso Ducato,  tanto che vi perdurò nelle sue funzioni fino alla sua fine.

Il Castellaccio aveva quindi questa funzione. Non sappiamo come funzionassero esattamernte le operazioni di verifica delle merci e le relative oblazioni, forse mediante accesso diretto nelle sue mura, come fosse un arsenale, forse mediante l'attracco esterno lungo le mura che avevano in acqua le loro fondamenta, e se non proprio nell'acqua, come oggi accade solo un paio di volte all'anno, certamente sul filo del bagnasciuga. Certo è però che qui i natanti vi si soffermavano a lungo, facendo perfino supporre che vi fossero numerose attività di supporto e servizio per approvigiionarsi di cibo e materiali necessari alle riparazioni più urgenti dei navigli.






Ancora oggi le mura del castello sono solide e ben visibili. In un paio di tratti sono ancora presenti bifore e finestre. All'interno, forse costituite dalle rovine dei muri sia perimetrali che interni, cumuli di pietrame ne riempiono gran parte dei volumi, così da determinare un terrapieno sul quale alberi ed arbusti vegetano spontaneamente da secoli. Numerose sono state anche di recente le operazioni di pulizia superficiale esterna, senza però raggiungere apprezzabili risultati, in quanto le ricrescita è talmente rapida da riportare la situazione allo statu quo ante, ricoprendo così interamente ogni struttura, al punto che molti oggi neppure si accorgono più della presenza del Castello, nonostante le sue dimensioni siano tutt'altro che minute.

Oggi vi regna un senso di totale abbandono che non è a nostro avviso giustificato nè dalla presenza di vestigia tanto significative, se non sul piano architettonico, certamente almeno su quello storico, nè per quanto esse potrebbero dare in termini di resa turistica. 
Sotto entrambi i profili Lesa e la Comunità dei tre Comuni di Belgirate Lesa e Meina potrebbero trarre vantaggi da una valorizzazione del Castellaccio.

Non sappiamo se vi sono state in passato proposte a tal riguardo. Noi crediamo se ne debba almeno incominciare a parlare per porre le basi d'una sensibilizzazione attorno ai suoi temi specifici, e per garantire anche che non vi siano possibili speculazioni che, con rapta manus, possano costituire precedenti difficili poi da gestire sul piano amministrativo.


Riteniamo necessario, intanto, che il Castellaccio sia struttura visibile sia esternamente che internamente; che venga perciò tenuta pulita dal verde rampicante che la invade rapidamente e inesorabilmente. La sua visibilità farà così in modo da costituire concreta effige d'un monumento in rovina, già in sè fattore di puro interesse simbolico e fattore strategico d'attrazione, anzichè essere, credo oggi, un fattore valido solo a livello toponomastico (la "via al castello" è ciò che più concretamente appare di esso, dato che l'ammasso di verde è tale, ancora e sempre, che neppure una sagoma al di sotto di esso oggi può essere immaginata).

Alla pulizia fisica credo si debba aggiungere solo un poco di pulizia formale, che faccia ragione d'un civile assetto d'assieme dato che di struttura monumentale trattasi, di fatto, e che di essa possa esserne fatto sfoggio, da parte degli enti preposti alla sua valorizzazione turistica non solo locale, senza alcuna sovrastruttura che ne infici l'attuale aspetto "romantico" ad alta vocazione paesaggistica.

Sarà sufficiente porre allo studio una livellazione interna drenante ed autopulente (per tutto quanto attenga alla crescita spontanea di vegetazione indesiderata), che richieda il minimo possibile in termini di manutenzione, così da collocarvi al massimo qualche panchina, e magari, per le ore serali, una discreta ma efficace illuminazione scenografica, sia dal lago che da terra, sostanzialmente basata sul fotovoltaico.

Crediamo, noi di Taccuini Internazionali, che in tal modo (pertanto con una spesa davvero assai modesta, anzi modestissima se suddivisa tra ente locale e contribuzioni superiori) il Castellaccio possa ricominciare a vivere, per sè stesso, come fattore visibile e quindi punto di focalizzazione visiva importante come avviene per le altre strutture lacuali d'altrettanto peso, ma anche per far vivere di maggiore pregio contestuale l'intera area dell'Erno.

Un progetto di "valorizzazione" assai soft, pertanto, che sappia mantenere, ed anzi rafforzare, l'intima essenza di un luogo, oggi vivibile come lo furono talune rovine romane all'epoca del Piranesi o del Pannini, che, crediamo, richieda, quale modo migliore d'essere vissuto, quello d'essere interpretato quale struttura ricca di interesse evocativo e storico, più che in termini squisitamente architettonici o artistici.

Nessuno, però, se così andassero le cose, potrebbe mai dire di no, ad eventuali altri e superiori usi temporanei, di tipo culturale in senso lato, che in futuro vi si volessero proporre, mai tali però da creare spaesamento e snaturamento di quei caratteri che oggi vediamo in ombra, ma potenziali, tali però, se ben coltivati, da riportare in alto un bel monumento sia pure in rovina, ed in auge l'effige di esso nel quadro territoriale dell'Alto e Basso Vergante, tra Arona e Stresa, fatto anche d'altri gioielli, quali il Castello Visconteo di Massino e la Chiesa di San Sebastiano nella stessa Lesa.

Vorremmo che il Castellaccio sopravvivesse nella memoria del luogo come luogo fisico, più che come pura traccia d'un passato ormai cancellato. Esso fu parte integrante del grande antico progetto, divenuto realtà, che fece del lago una fondamentale componente della mobilità tra Svizzara e Pianura Padana, che fece ricche le nostre regioni tra medioevo ed età dei lumi. Esso farà ancora parte, sia pure a livello simbolico, della rinascita di tale progetto, ora ancora allo studio, ma prossimo ad essere ancora realtà.
(E' in preparazione su Taccuini un articolo sulla Nuovo Sistema Idroviario tra Svizzera e Venezia, con porto di interscambio ad Arona-Lago Maggiore).



Lesa, 18 agosto 2011

Enrico Mercatali



09 August 2011

Postmodernità alla frutta




Una nuova filosofia realista sembra aleggiare
da qualche tempo tra Italia e Germania


TORNA IL PENSIERO FORTE ?

In appendice "L'irruzione della realtà"
(dal fondo di Barbara Spinelli su la Repubblica del 10 Agosto 2011)
 




Il filosofo italiano Maurizio Ferraris, dell'università di Torino (in alto), con i colleghi Markus Gabriel e Petar Bojanic, rispettivamente di Bonn e di belgrado (in basso), sta organizzando per la prossima primavera a Bonn un convegno internazionale intitolato "New Realism", dedicato all'esigenza di riportare il mondo esterno al centro dei fatti, col conseguente abbandono della postmodernità, avvertita ormai come una filosofia incapace di indirizzare le scelte più urgenti e necessarie del mondo d'oggi: un ritorno in auge, pertanto, del "Pensiero Forte".






Parteciperanno al convegno noti filosofi internazionali, tra cui spiccano i nomi di Umberto Eco, John Searle e Paul Boghossian. Il tema è di grande interesse. Il Convegno intende restituire alla nozione di "realismo"  lo spazio che si merita oggi, sia in filosofia, che in politica e nella stessa società, nella vita quotidiana, quello spazio che il mondo postmoderno le aveva tolto considerandola conservatrice, se non addirittura una vera e propria ingenuità filosofica.














Umberto Eco (a sinistra), filosofo e romanziere italiano, che parteciperà ai lavori del Convegno di Bonn, autore tra l'altro del famoso saggio "Kant e l'ornitorinco" (1997), il quale è stato uno dei maggiori assertori della necessità di fare i conti con lo "zoccolo duro" del reale, lungo un percorso che egli aveva già intrapreso sin dagli anni novanta con il saggio "I limiti dell'interpretazione".

John Searle (in alto, al centro), filosofo statunitense che parteciperà a sua volta ai lavori del Convegno, è stato tra i primi a lanciare, nel 1995,  una critica all'idea che tutto sia costituito da una sovrastruttura sociale, e che perfino il mondo naturale a questa sia soggetta, così da togliere spessore al principio di realtà. Tale critica era già presente nel suo famoso saggio " La costruzione della realtà sociale", nel quale la realtà pareva dipendere da fattori ad essa esterni, presenti invece nell'interprazione che ne dava la società.

Paul Boghossian (a destra), direttore del new York Institute of Philosophy e ricercatore di filosofia della mente ed epistemologia del linguaggio, ha sviluppato interessi e studi assai approfonditi anche nel campo dell'estetica con particolare riferimento ad una filosofia della musica, è autore di "Paura di conoscere", saggio nel quale egli sviluppa una critica al relativismo ed al costruttivismo della conoscenza.


Il pensiero debole aveva descritto la realtà come inaccessibile in quanto tale poichè mediata da pensieri e sensi. Con il famoso slogan "l'immaginazione al potere" si giustificava il desiderio inconscio di lasciare che tutto restasse come già era nei fatti, non affrontando la realtà per tutto ciò che essa rappresentava, sia in positivo che in negativo, lasciandoci in posizione sostanzialmente rinunciataria rispetto ai problemi che la realtà imponeva. Oggi, prima tra tutte la politica, ma anche la costruzione populista del consenso mediatico, hanno contribuito a sgretolare il castello delle certezze postmoderne.
Ciò che tempo fa i filosofi proponevano come "via per l'emancipazione", ovvero il principio nietzschiano del "non ci sono fatti ma soltanto interpretazioni" è divenuta occasione per fare sempre e solo ciò che si voleva o più conveniva. La stessa concezione d'una estetica vista non già come una filosofia dell'illusione, quanto d'una filosofia della percezione la dice lunga circa la disponibilità nella quale ci si voleva mettere rispetto a quanto accadeva nel mondo esterno, rispetto ad una realtà che si voleva poter guardare con gli occhi di chi vede, al di fuori da schemi concettuali, secondo formule soggettive. La stessa nozione di "verità", così intimamente connessa alla nozione di "realtà", veniva ritenuta  dalla postmodernità assai meno importante della solidarietà. Sostiene Ferraris , in un articolo da lui pubblicato su "la Repubblica" (8 agosto 2011)  l'esempio di chi va dal medico che non si accontenta d'avere risposte interpretative, creative e solidali circa il suo stato di salute, ma pretende risposte veritiere. Ecco perchè le parole-chiave del "New Realism" devono essere: ontologia, critica e illuminismo.





Già trent'anni fa il filosofo tedesco Habermas vedeva nel postmodernismo una pericolosa ondata anti-illuminista. E con lui anche tanti di noi, già alla nascita di quella ventata di radicali cambiamenti della visione critica della realtà che aveva avuto origine negli anni settanta, dubitavamo della sua consistenza di pensiero, e soprattutto della sua capacità di creare impianti teorici di ragionamento che fossero convincenti quanto da tempo erano state le basi teorico-filosofiche che erano nati con l'illuminismo.



L'errore dei postmoderni stava nel confondere ontologia con epistemologia, ovvero tra ciò che c'è e ciò che sappiamo su ciò che c'è. Insomma, prosegue Ferraris, che l'acqua bagni e che il fuoco scotti è indipendente dal fatto che noi lo si sappia, e tanto più ancora dai linguaggi e dalle categorie. Per distinguere il sogno dalla realtà esiste pertanto un carattere saliente del reale, il quale può essere una limitazione, ma al contempo un sicuro punto di appoggio.
Mentre i postmoderni vedono l'irrealismo come modalità emancipante, c'è chi vede invece la necessità  d'indagare per accertare, ovvero conoscere come stanno realmente le cose, ricorrendo alla critica. Il realismo e subito critico, mentra l'irrealtà pone problemi di interpretazione. Devi pur sapere se stai davvero trasfonrmando il mondo, oppure soltanto immaginare di trasformarlo!
Per quanto concerne l'illuminismo fu Habermas, per primo trent'anni fa, a capire che nel postmodernismo vi era implicita una vera ondata anti-illuminista. E con lui molti di noi ne avevano capito la vera sostanza, fatta di irrealtà, di sogno, d'incertezza di giudizio, di sostanziale debolezza critica di fronte ai veri problemi da affrontare per stare dentro alla realtà delle cose.


L'illuminismo richiede fiducia nell'umanità, nel sapere, nel progresso. Già Kant in esso vedeva l'uscita dell'uomo dalla sua infanzia. Poichè mai un Dio potrà portare salvezza all'umanità, ad essa l'uomo potrà giungere solo con la verità, col sapere, con la conoscenza della verità. Seguire invece, al loro posto, il miracolo, il mistero, l'autorità significa abdicare ai compiti dell'azione realmente salvifica, come hanno fatto tutti i postmodernismi filosofici, e con loro i populismi politici,  le dittature di vecchia e di nuova matrice.




In apertura e in chiusura i ritratti di Kant e di Hegel, nel cui filone di pensiero si innestano tutte le teorie filosofiche che pongono l'uomo di fronte al mondo esterno ed ai fatti della realtà. Ricorre oggi la tendenza a riconsiderare tale filone come essenziale all'esperienza umana, più che mai resasi evanescente nel pensiero e nell'azione con l'avvento delle teorie del pensiero debole propugnate dalla posmodernità



Proponiamo di mantenerci in contatto con tali concetti, e di seguire nella prossima primavera il Convegno di Bonn, che ne svilupperà, credo in modo anche del tutto nuovo, le questioni più dell'attualità che della storia.
Crediamo che i concetti di creatività e trasparenza, da noi evocati nel definire i campi d'attività sottesi al nostro Blog, legati alla necessità che hanno ancora gli umani di conoscere attraverso il viaggio, l'avventura, il peregrinare nel mondo sia pure nelle modalità organizzate del mondo attuale, stiano entrambi, nonostante tutto, ancora ben collocati nell'ambito del pensiero forte, d'un realismo prima di tutto concreto prima che suggestivo, d'una azione fatta di progetto prima ancora che di sogno, d'accertamento prima ancora d'evasione, per la costruzione di sè nella consapevole conoscenza della propria natura.


Lesa, 11 agosto 2011
Enrico Mercatali


P.S.:

"L'irruzione della realtà"
Articolo di Barbara Spinelli su "la repubblica del 10 agosto 2011

Forse non casualmente, il giorno successivo a quello nel quale apprendevamo la notizia del Convegno di Bonn intitolato al "New Realism", un fondo di Barbara Spinelli su "la Repubblica", intitolato "L'irruzione nella realtà", affronta la medesima tematica, ma, anzichè a sfondo filosofico, questa volta a sfondo politico. Del discorso filosofico che aveva solo un giorno prima attratto la nostra attenzione, ricaviamo immediatamente una interpretazione assai vicina alle vicende dei nostri giorni, così rafforzando l'impressione, che avevamo avuto nel leggere l'articolo di Maurizio Ferraris, d'essere di fronte ad una svolta epocale, la cui entità veniva sottolineata proprio dall'essere divenuta necessaria perfino una nuova dimensione filosofica che la sapesse spiegare.

Sostiene la Spinelli, commentando con il suo consueto acume critico la particolare incapacità del Governo italiano, rispetto a quella dimostrata dagli altri paesi, ad affrontare la crisi dei mercati internazionali, che la situazione è totalmente sfuggita di mano a chi, pur avendo le redini del Paese, non ha più la capacità d'affrontare la realtà dei problemi, proprio perchè fino a questo momento non ha fatto che favoleggiare a danno d'una lettura più realistica: un Governo spiazzato ("commissariato") dalle Autorità monetarie superiori (BCE) che si rifiuta di sentirsi esautorato da queste sul terreno d'un realismo a lui non avvezzo, vedendosi depredato dalla visione onirica della quale aveva abituato il Paese a fronte d'una "verita" inaccettabile proprio perchè troppo molesta soprattutto in quanto ineludibile coi soliti strumenti finora adottati del populismo mediatico.
Mai nulla di più chiaro, nella realtà giornalistica, per spiegare ciò che anche la filosofia sta apprestandosi a decretare con le sue strutture logiche.

03 August 2011

"Il Nome della Rosa", sovviene, tra Ossola e Formazza tardo-medievali, nel suggestivo mix di fede, natura, arte e cultura






 Between Uriezzo Gorges and Waterfalls of the Toce River,
a precious jewel of art in S. Gaudenzio of Baceno.



Tra Orridi d'Uriezzo e Cascate del Toce
una preziosa gemma d'arte in
 S. Gaudenzio di Baceno





 Remembering "The Name of the Rose",
between medioeval Formazza and Ossola,  
we discover a charming center of culture in art


Come ne "Il Nome della Rosa", tra Ossola, Antigorio e Formazza medievali, lungo la via tormentata d'un impervio cammino, appare improvvisamente al viandante pellegrino dei tempi bui un fascinoso luogo di bellezze, un centro di cultura corposo e ricco. 
Dopo ore ed ore di cammino tra boschi e gole rocciose, ecco una meta: un "perno territoriale di civiltà" alle pendici della catena alpina, lontano dal mondo abitato, dalle città di pianura. 






Al viaggiatore errante esso si mostra quale improvvisa meraviglia  quando, oltrepassate valli ed acque, gole ed orridi terrifici, foreste e alpeggi, inaspettata compare maestosa, nel punto largo della valle, la mole di San Gaudenzio di Baceno, eretta sopra l'aspro sperone di roccia che già in epoca alto-medievale era errato anch'esso sino al primo prato in piano, ed ampliata poi sempre più grandiosamente  a più riprese in epoche successive, ricca e splendente d'ogni suo tesoro, d'antiche credenze e di saperi costruito, quale centro di cultura unico e inviolabile nella valle imprevedibile nella tormentata geografia, già densa però a quel tempo di intensi transiti commerciali transalpini.





La Crocifissione, di Antonio Zanetti detto il Bugnate, affresco del 1542. Nel XVI secolo il razionalismo rinascimentale ha raggiunto il suo massimo splendore in quella mimesi aristotelica che ha dato dignità intellettuale all'artista non più considerato artigiano. Divenuto cortigiano ed umanista egli ha potuto rappresentare "la natura" delle cose con lo spirito di chi guarda alla grande tradizione classica, ma che sperimenta con metodo scientifico il divenire del proprio tempo storico. E' nella scia di questa tradizione che lo Zanetti (sembra sia stato allievo di gaudenzio ferrari - 1457/1546) realizza l'ampio affresco: in piena crisi manieristica, soffrendone le difficili condizioni storico-politiche dell'Italia di allora. Vi è nel dipinto come un sentore di battaglie e di trippe occupanti il territorio, ove la natura, controllata prospetticamente, si presenta fedele ed accucciata ai piedi dell'invasore.



Pur tanto lontano dalle città di piana e di lago svizzere e italiane, il  centro religioso è già capace di suoi propri originali irraggiamenti d'arte e di cultura, oltre che di pii messaggi, oggetti di propria autoctona elaborazione d'intelletto e di fede.






Punteggiano l'antico percorso ameni alpeggi e luoghi di transumanze, che si allargano in prati soleggiati di tanto in tanto, tra boschi, dense foreste ed impervi passaggi rocciosi



Tarda in forme e stili, per gli echi che giunsero a lei dal fondovalle , culla del Ducato di Milano e dalle città svizzere, tedesche ed anche anseatiche, attraverso crogiuoli interpretativi d'alte scuole ed approfonditi studi con echi di rimando filtrati da propri talvolta non troppo elaborati idiomi, ma capace di forti slanci non privi d'episodi anche sicuri e già maturi, eleborati secondo gli stilemi mediati dalla cultura che intende parlare soprattutto alla povera gente, ai pastori, ai coltivatori, ed ai pochi artigiani che attorno essa ruotavano ogni giorno e ad essa s'abbeveravano.







La chiesa che oggi mostra di sè il rigoglio delle  sue diverse lingue sovrapposte e dei rifacimenti, delle addizioni e dei restauri, già agli albori del rinascimento esprime la compiutezza d'una piena maturità, degli aneliti espressivi della propria comunità, sempre pronta ad abbevararsi delle novità provenienti da lontano. 





L'ingresso alla chiesa è composito nell'impercettibile strombatura: la parte più interna comprendente l'architrave è tardo-romanica. La lunetta affrescata nel 1400 è stata in seguito ridipinta maldestramente. Nel 1505 vengono aggiunte cornici in pietra cristallina; lavorate con bassorilievi a fiori, capitelli e figurine fantastiche, di gusto rinascimentale, comprendono il giglio di Francia e gli stemmi nobiliari dei Della Silva e dei Rodis-Baceno.


Essa era pronta ad accogliere lo straniero come chiunque altro giungesse in quel terrifico  passaggio delle gole d'Uriezzo che immediatamente la precedono se si giunge da sud, presentandosi come segno del divino, quasi, tanto incombeva dall'alto della rocca quella sua vetusta abside antica, appena puntellata dai suoi intrepidi contrafforti, su chi, conoscendone l'esistenza, s'apprestava a giungervi con animo trepidante e pio, tanta grazia da essa era pronto a ricevervi, secondo quanto la novella di quelle parti andava diffondendo.






Ancor oggi riconosciamo in quelle contrade, perfettamente conservati ed in quadri ambientali integri, i segni della storia che riuscirono a rendere lieto l'itinerario transalpino tra Lago Maggiore e i Quattro Cantoni tra Zurigo e Berna, tra Medio Evo e primo rinascimento. 








Ancora oggi chi s'appresti, muovendo a piedi lungo i sentieri che da Crodo portano alle Cascate del Toce, riconosce lungo le acque che scorrono a fondovalle, lunghi tratti di strada lastricata con le pietre scure della roccia locale, coi suoi ponti e le fontane per la sosta, slarghi prativi e angusti passaggi tra massi erranti. 





Una delle costanti del genere pittorico che distingue parte della storia figurativa ossolana consiste nella dilatazione delle figure dipinte nel tentativo realistico di farle rivivere nello spazio illusorio del sogno. Questa atmosfera, che avvolge le fanciulle ritratte soprattutto negli affreschi a immagine della Madonna, si può ancora cogliere sui muri esterni delle case. Anche in questo affresco, che troviamo presso uno dei pilastri a destra del transetto della chiesa, opera del Cagnola, eseguito agli inizi del '500, ben rappresenta questa propensione. "Ben si comprende qui come questo artista tra il XV e il XVI secolo abbia inserito nel dipinto, oltre l'aspetto "surreale", diverse soluzioni stilistiche, dedicando grande attenzione al "naturalismo" rinascimentale, nel descrivere puntualmente i particolari anatomici, e nel tracciare quella prospettiva centrale, allestendo un baldacchino dalla stoffa setosa che copre e restringe la profondità retrostante"


Nel percorso, prima di giungere all'abside antica di San Gaudenzio, appollaiata sull'alta cuspide rocciosa, contraffortata da archi in pietra, prima d'essere cioè nell'abitato di Baceno, s'attraversano tratti di sentiero immersi nelle gole, dette poi d'Uriezzo, dal nome della località che ancora le conserva, anfratti oscuri tra le rocce dilavate dall'acqua e dal vento definiti orridi per la paura che frequentemente ingenerano in chi le incrocia, per le forme cupe simili a grotte che le caratterizzano e per il cielo che si perde in esse spesso, inoltrandovisi all'interno. 






Ecco perciò accostarsi in un piccolo tratto di territorio, ed in un lasso minuscolo di tempo, due realtà tanto diverse tra loro, l'Orrido ed il Centro Religioso, contesi tra natura e cultura, tra umano e divino, tra terrifico ed eccelso, orribile e stupendo, già divenuto amalgama, nella mente e nello spirito di chi vi si imbatte, di tanto diverse e opposte sensazioni, di tanto differenti motivi di meditazione e di pensiero.






Questo diadema incastonato nella dura roccia della montagna già fu citato in un documento, conservato nella chiesa, datato anno Mille. Trattavasi dell'angolo Sud Ovest dell'attuale presbiterio, la più antica dell'edificio, che venne eretto quale cappella votiva con dedica al santo Gaudenzio quale atto di donazione del Vescovo Gualberto di Novara ai canonici di Santa Maria assieme ad altri suoi possedimenti in quella valle tanto lontana. Sembra che tutt'attorno ad essa vi fossero allora le mura di un castello, poi demolito per fare spazio agli ampliamenti della chiesa.










Una chiesa più ampia, in grado di contenere qualche persona, fu eratta proprio davanti alla cappella, ed integrado questa nelle sue mura, creando un vano rettangolare corrispondente all'odierno presbiterio, non perfettamente in asse con l'impianto a tre navi, quelle centrali, che oggi ancora possono essere viste. L'intervento che portò il piccolo edificio alla lunghezza dell'attuale fu realizzato nel secolo decimoprimo per fare spazio ad una popolazione dell'abitato che andava ingigantendo.






L'assetto dimensionale attuale venne realizzato tra il '2 e il '300, ovvero in epoca basso-medievale, con ampliamenti ancora laterali sino all'ottenimento della larghezza attuale, quasi ampia quanto la lunghezza, i 5 navi distinte, con la caratteristica d'essere le intermedie assai più strette della centrale e delle laterali (cosa del tutto inconsueta e, forse, unica. Con opere murarie e di contraffortatura, con l'aggiunta dell'alto campanile, con  nuove opere interne di controsoffittatura, intonacatura, e decorazione pittorica pressochè integrale dei muri, delle volte, e perfino d'alcune colonne, si lavorò intensamente fino alla fine del 1500, epoca che vide sorgere tutt'attorno addizioni e cappelle private dotate di decorazioni pittoriche molto significative per comprendere il livello di finezza raggiunto, qui in alta valle, dalle scuole che vi posero le mani.






Ecce Homo. Di autore ignoto l'affresco su colonna è datato 1509. 
Sottostante è una preghiera in caratteri gotici


Nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo si potè completare questa sublime opera di montagna con l'aggiunta di una nuova abside e di un coro, vi si aggiunse un organo di grande pregio ed altre cappelle atte ad accogliere i resti di Santa Vittoria, eroina e martire cristiana sotto l'imperatore Traiano Decio (inviato il corpo a Baceno dal Cardinale Gaspare Carpineo nel 1702).





"L'ampia facciata di S. Gaudenzio è un libro aperto di suggestive sovrapposizioni storiche: essa appare come una grande schermo sostanzialmente tardo-romanico, oggi suddivisa in tre parti. la centrale è delimitata da tre pinnacoli che, assieme al frontone, alla cui base vi sporge una sottilissima cornice, vanno a concludere lateralmente il rettangolo spaziale sottostante con due lesene anch'esse pochissimo sporgenti. Le due parti laterali, con occhi di bue a porte racchiuse da cornici rinascimentali, dispiegano pesantemente la grande vela a capanna in rifrante geometrie di primordiale astrazione": così recita il volumetto distribuito nella chiesa. E continua: "La due porte secondarie hanno modanature di pietra chiara, l'una datata 1546 e l'altra, senza timpano ma con lunetta, è coeva alla prima. Il frontone dal lieve chiaroscuro suggerisce una ingenua sequenza di colonnine e archetti pensili che il leggero arretramento della parete guida verso un immaginario interno prospettico. La croce più bassa, vuota, introduce la seconda più alta e luminosa nel rappresentare la religiosa identità del suo percorso simbolico."

"L'affresco esterno, spropositato nelle dimensioni, è dello Zanetti, del 1542, e rappresenta S. Cristoforo che porta il Cristo Bambino. Ponendosi all'attenzione di chi, lontano nei campi, lavorava e sudava faticando, questo gigante buono chiedeva di rappresentare, più d'ogni altro, la Chiesa stessa, sulle cui spalle pesa la responsabilità dell'invito alla preghiera. E' stato oggetto di un accurato restauro nel 2002.






Per quanto attiene l'interno della chiesa, "la sensazione che si prova, guardandoci attorno, è quella di percepirlo più ampio di quanto non sia realmente. Infatti se aggiungiamo la doppia fila di colonne a scandire lo spazio circostante si ha l'effetto di una lieve dilatazione: a suggerire una maggiore profondità prospettica e ad avvolgere le fresche ombre del giorno in misteriose atmosfere".





"Così non era nella chiesa originaria dove i nudi e grigi muri della scatola geometrica servivano a sostenere l'elegante soffittatura a cassettoni in legno dipinto di cui alcuni frammenti sono custoditi in sagrestia. L'attuale soffittatura con impasto di malta con canniccio è stata decorata nel 1824-25."

Chi oggi volesse ripercorrere l'esperienza del pellegrino viandante che in epoche buie avesse voluto compiere l'itinerario alpino attraverso Antigorio Formazza, proponiamo di fare una camminata lungo le acque di Fondovalle, da Sud a Nord tra Crodo e Baceno, così da inserirsi in quadri ambientali tuttora integri capaci di ricondurre a quei tempi, calpestando sentieri acciottolati d'antica origine, attraversando roccie, alpeggi, boschi, cascatelle, orridi e temibili gole scavate nella montagna e corrose dai venti e dalle acque, così raggiungendo il gioiello sopradescritto come fosse un incantesimo inaspettato e stupefacente.


Baceno, agosto 2011
Enrico Mercatali