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27 March 2013

Ville Savoye, Casa Farnsworth e Fallingwater in "Capire gli spazi che viviamo" - di Enrico Mercatali e Vanessa Passoni





Il duplice approccio oriente-occidente
ci aiuta a capire gli spazi che viviamo




Sopra e sotto al titolo: Tre immagini delle vedute esterne (sopra) ed interne (sotto) di Ville Savoye (1928-31) di Le Corbusier e Pierre Janneret a Poissy presso Parigi, di Casa Farnsworth (1945-51) presso Chicago, di Ludwing Mies  van der Rohe e di Fallingwater (1935-39) di Frank Lloyd Wright, presso Bear Run in Pansylvania


Taccuini Internazionali ha visitato le tre case più pubblicate al mondo, opera di noti maestri dell'architettura moderna, per rilevare ed annotare aspetti ai quali i più prestigiosi critici e storici dell'architettura hanno dato scarsa importanza: abbiamo, per così dire, "testato" la vivibilità dei loro ambienti interni. 

(Continua)
...
 
Di esse, in questo articolo, vi daremo un nostro giudizio, aggiungendovi alcune interessanti ed utili notazioni storiche.


Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Ville Savoye a Poissy, presso Parigi, di Le Corbusier e Pierre Janneret (1928-31)



Ville Savoye (1929-30)
Le Corbusier e Pierre Janneret


Inquadrando questa villa tra le più ampie e prestigiose della serie di ville che Corbu realizzò con il cugino Pierre alla fine degli anni ’20, essa appare, quale ultima della serie di case private nate dalla sperimentazione delle teorie razionaliste dei loro autori, la più completa e consona a spiegare pregi e difetti del nuovo modo di costruire e di concepire una poetica del nuovo purismo internazionalista europeo, del quale il loro Studio parigino è stato il più convinto propugnatore.

Concepita per una vita suburbana per i mesi estivi, a stretto contatto con la natura dei boschi attorno a Parigi, essa è l’espressione di quanto potessero desiderare, per autorappresentarsi nell’alta società parigina ma anche per vivere modernamente la propria vita familiare, i facoltosi Savoye, i quali la commissionarono senza troppo badare allo “stile”, quanto certamente alla funzionalità dei suoi spazi, ma successivamente anche e  soprattutto al contenernimento degli esorbitanti costi, dopo aver convinto gli autori a rivederne più volte, per questo, i progetti.
Alla fine dei lavori la storia della villa parla di numerosi litigi tra proprietari e professionisti, e di un possibile ricorso alle vie legali, dovuti allo smisurato sforamento dai preventivi, ma soprattutto ai numerosi difetti riscontrati, specialmente quelli derivanti da abbondanti infiltrazioni di acqua piovana in più punti della casa riscontrabili prevalentemente a seguito dei potenti acquazzoni di fine estate, che furono il vero incubo di Madame Savoye. La cosa è comprensibile, data la tipologia della costruzione, soprattutto per i materiali e le tecniche di allora, ma anche strana, data la proverbiale cura adottata dallo Studio per i dettagli costruttivi, spesso anche innovativi, particolarmente concentrata proprio sulla serramentistica e sugli scarichi delle acque meteoriche delle terrazze pensili.

Nessun’altra notizia ci è giunta, viceversa, circa l’apprezzamento da parte dei committenti dell’opera nel suo complesso, e circa l’abitabilità da loro sperimentata degli interni.

Come spesso avviene per le architetture che hanno “fatto storia” anche Villa Savoye è oggi museo di sé stessa, da che fu risolto lo stato di cronico abbandono (di cui già parla Leonardo Benevolo nella sua “Storia dell’architettura moderna” del 1965), dopo il più recente restauro.
Certo nulla di più che un intonaco bianco è in grado di mostrare il proprio deperimento negli anni. Ma il problema non sembrava mostrare soverchio interesse per Le Corbusier, né lo stato dell’arte produttiva di quei tempi poteva offrire nulla di paragonabile a quanto oggi si possa trovare sul mercato di tali prodotti di rivestimento e di finitura esterna per gli immobili. Noi siamo però anche dell’idea che le nuove tecniche di rivestimento (adottate ad esempio da chi oggi ancora mostra interesse per il vocabolario corbusiano, come per il caso di Richard Meier, rivisitandone in chiave maggiormente tecnologica gli assunti) non abbiano aggiunto di più, ma  semmai hanno tolto, in termini di valore poetico e di genuinità espressiva.
E’ significativo comunque come, una architettura domestica nata sulle premesse di un riscatto sociale che con essa si sarebbe dovuto ottenere, d’una casa alla portata di tutti, e di un linguaggio che vi rispondesse per semplicità, razionalità e funzionale salubrità, nella realtà diede risposta a esigenze d’altro tipo: rappresentatività ed autocompiacimento di ceti sociali abbienti, prevalentemente intellettuali (particolare fu il caso del “fedele entusiasmo” di Raoul La Roche che fece fotografare la sua casa quale “modello di architettura” dal più celebre fotografo francese di allora, Boissonas, e che andava vantandosi del fatto che nella realtà la casa appariva ancor più bella che in fotografia, con quella sua unica “sinfonia di prismi”, ma visti altrove.
Quali erano i fini ultimi che Le Corbusier si prefiggeva d’ottenere con la sua architettura, tra gli anni ’20 e i ’30, specialmente all’interno del suo programma di divulgazione teorica che faceva di tutto per rendere visibile e di dominio pubblico?
E’ chiaro che l’ideale platonico, che per la sua architettura egli promuoveva, nel rapporto intimo e forte tra uomo e natura, più ancora di quanto non si prefiggesse con il suo purismo pittorico, vi veniva professato in ogni occasione: articoli, conferenze, interviste, ecc.. Esso  prevedeva precisi paradigmi applicabili in ogni situazione, tutti riassunti nei famosi 5 punti di “Verso un’architettura” (pilotis, finestrature a nastro continuo, tetto piano praticabile a giardino pensile, pianta libera, facciata libera), nati per una nuova vivibilità, una nuova salubrità, un nuovo rapporto interno-esterno, una nuova esperienza dell’abitare. Esso diveniva, in ogni occasione che gli si sarebbe presentata d’applicarli, inevitabile motivo di nuova ed ulteriore propaganda, forse l’unica cosa che davvero interessava all’architetto.
Circa il rapporto che, con gli spazi e le funzioni di questa casa, così come era accaduto nelle precedenti dell’intero decennio, dovessero avere i suoi proprietari, era affare che nulla aveva a che vedere, per Le Corbusier, con le persone stesse, in carne ed ossa, e tanto meno con le loro esigenze psicologiche più personali. Esso doveva rispondere unicamente all’assunto generico ed universalmente applicabile d’una esperienza tipo, di una persona tipo (quella dal Modulor?) che Corbu andava costantemente ricercando ed enfatizzando, di progetto in progetto, come ampiamente dimostrano i suoi schizzi, come per inseguire un suo stato d’ebbrezza, una sua personalissima ed acrobatica drammatizzazione del divenire umano nella storia.

Nel giudicare oggi, alla luce di uno sguardo meno agiografico e più realista dei bisogni universalmente sperimentabili di chi vive in una casa, possiamo osservare che davvero possente e di grande effetto è il rapporto interno-esterno del grande soggiorno e del grande patio esterno terrazzato della casa Savoye, mentre la scelta dello spazio continuo interno, privo o quasi di separatori, ivi incluso quello del corpo-scala, rende fredda e indeterminata la vivibilità interna della casa, creando un senso di smarrimento e scarsa identificabilità nei suoi spazi, nei suoi angoli ed anfratti, ove collocarsi nei diversi momenti della giornata. Concorrono a tale negativa sensazione gli arredi fissi, pur tanto graditi al suo autore, talvolta miseri, o insufficienti, talvolta ingombranti, le soluzioni di collegamento tra i piani interni ed i livelli della casa, le cui finiture non casualmente ricordano un’esperienza navale. Mentre bisogna riconoscere l’obbiettiva riuscita della compenetrazione spaziale dei due ampi soggiorni, quello interno e quello esterno (separati unicamente dalla grande vetrata a tutta altezza, ed accomunati dal continuum della finestratura a nastro ad essa ortogonale, che aggiorna le diverse fasi solari della giornata sulla natura circostante, vista come dentro a un quadro, ma capace anche tra l’altro di determinare una adeguata privacy dell’intero piano principale della casa. Le stesse componenti verdi (che Corbu affidava regolarmente a Lucien Crépin nonostante le sue altissime fatture che spesso causavano caustici litigi con i committenti), che, coerentemente ai suoi principi avrebbero dovuto essere ricche ed abbondanti, risultano invece assai misere, come le vasche che le contengono. Non è un caso che non una sola delle numerosissime foto, sia d’epoca che odierne, dalla Ville La Roche del ‘23 alla ville Savoye del ’30, sia in grado di mostrare una qualche abbondanza di verde. Bisogna anche dire che anche questa del verde pensile fosse forse un’utopia, essendo necessarie, per ottenerne i più soddisfacenti effetti, tale dosi massicce d’impiantistica ad essa dedicata che forse neppure oggi possano essere ottenuti se non a fronte di costi elevatissimi d’istallazione e di gestione.

Enrico Mercatali


Edificazione futuribile dal gusto decisamente retrò.

Seppur sovraelevata mantiene una base centrale di rapporto stabile con l’ambiente e nella parte superiore scopre armonie che nella loro alienità si armonizzano alle richieste del Qi che predilige i movimenti circolari.

La parte centrale della casa subisce una forte onda di informazione che penetra dal basso verso l’alto, compensata da un’energia Qi altrettanto forte che scopre un moto orizzontale e circolare nel piano soprastante.

Una casa con caratteristiche che ben ispirano la meditazione esoterica, con precise caratteristiche indicate ai templi di molte discipline religiose sia in Oriente che in Occidente.

Vanessa Passoni



Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Casa Farnsworth (1945-51) presso Chicago, di Ludwing Mies  van der Rohe. 


Farnsworth house (1945-51)
Ludwig Mies van der Rohe


Mies fu scelto dalla facoltosa cliente, Edith Farnsworth, aspirante violinista e poi famosa nefrologa,  proprio tra i tre architetti che aprono questa rubbrica (Mies, Wright e Corbu), i cui nominativi le erano stati sottoposti da un amico quando gli manifestò l'intenzione di farsi costruire una casa per  i suoi week-end di riposo. Ma Mies fu selezionato non tanto per ragioni professionali quanto per comodità di vicinanza. Quando ebbe l'incarico di realizzare la villa su di un terreno di 4 ettari molto isolato, entro i boschi attorno al fiume Fox presso Plano, Illinois, a 47 miglia ad Ovest di Chicago, ed iniziò ad eseguirne i progetti, si avviò tra i due un idillio amoroso, che durò un paio d'anni, tanto fu lungo il periodo di gestazione del progetto, fino all'inizio dei lavori, che ebbero una durata di altri due anni circa.  Se fino allo stato avanzato della costruzione quella intensa ma distensiva situazione ebbe a durare, così non fu nella seconda parte dei lavori e negli anni che seguirono: i primi litigi tra committente ed architetto arrivarono al punto che la signora intentò una causa contro Mies, per diversi suoi malcontenti inerenti il sistema di protezione della casa ed i suoi tendaggi, ma soprattutto per ragioni economiche, che vedevano notevolmente accresciuti i costi preventivati ed all'inizio  concordati. Racconta Franz Schulze, nella sua nota biografia di Mies del 1985, che egli ebbe la meglio, dovendo restituire alla cliente solo una minima parte dell'enorme somma richiesta quale risarcimento, ma che restò in lui una amarezza che, poco cavallerescamente, divenne pubblica con una frase: "La signora si aspettava anche l'architetto insieme alla casa". Tutto infatti sembrò precipitare forse proprio per una delusione amorosa. Lei, pubblicamente nota per essere donna di grande cultura, ebbe a dire di lui: " Forse come uomo non è quel chiaroveggente primitivo che pensavo, ma semplicemente l'uomo più freddo e crudele che abbia mai conosciuto. Forse ciò che voleva non è mai stato un amico o un vero collaboratore, per così dire, ma un babbeo e una vittima". Certo è che se quel prodotto, così unico quanto a idea, soprattutto per quel tempo, ebbe a realizzarsi, fu unicamente per una grande consonanza di vedute tra la committente ed il professionista.
La casa fu venduta nel 1962 a Peter Palumbo, impresario edile di Londra, che l'acquistò per una venerazione particolare da lui ammessa per l'architettura di Mies, tanto da averne seguito pedissequamente i consigli, quali quelli di non mettere quadri alle pareti, ma, volendo circondarsi d'arte, solo sculture; oppure quello di rimuovere gli schermi che l'inquilino precedente aveva posizionato sulla terrazza per difendersi dalle abbondanti ondate di zanzare, e dall'eccesso di calore nelle giornate estive, sostituendole con alcuni poco funzionanti accorgimenti, quali grandi ventilatori negli angoli della casa, e lasciare aperte porte e finestre, rischiando gli attacchi dei pericolosi insetti. Ma Peter Palumbo ebbe a dire che era per lui accettabilissimo il dover sopportare alcuni piccoli fastidi, quali quello delle zanzare, del caldo d'estate durante le ore meridiane, la condensa dovuta a  scarsa ventilazione, ecc, per evere in cambio la bellezza e la grandezza delle visioni che della natura offre la casa, nella sua quiete e nell'evolvere delle stagioni, "luogo di nutrimento spirituale dovuto alla bellezza riduttivista del posto". "Una bellezza immensament convincente. La pura geometria della casa e le impeccabili proporzioni delle sue parti sono espressioni di una presenza umana in armonia  con l'ambiente naturale dei boschi. Vista dall'interno e sotto l'angolazione di 360° attraverso le pareti trasparenti, la natura, in modo particolare quando cambiano le luci e le stagioni, penetra e diventa parte integrante dell'esperienza di tutto il tempo passato qui". Aggiunge Schulze: "Casa Farnsworth è un progetto classico con implicazioni romantiche, un'opera d'arte che trova una mediazione, attraverso l'architettura, tra uomo e natura. In questo senso essa evoca lo spirito di Schinkel."

L'entusiasmo fortemente interiorizzato col tempo, sia del suo secondo proprietario (che vi soggiorna pochi giorni all'anno, e che probabilmente doveva farsi vanto d'aver acquistato una così importante opera d'arte), sia del grande critico dell'architettura (che ne ha sposato pienamente lo spirito pur senza abitarvi) hanno saputo fare strame d'ogni altra obbiettiva considerazione.
Forse più di ogni altra opera d'architettura, questa di Mies, sembra essere l'antitesi di ciò che sia una casa, icona stessa della protezione che l'uomo esige nei confronti della natura: le sue superfici vetrate perimetrali non concedono tregua all'idea stessa della privacy (per quanto la proprietà fosse ampia tutt'attorno). L'osmosi generalizzata delle funzioni tra di loro è tale che non vi si distinguono gli spazi della notte da quelli per il giorno, le zone spogliatoio da quelle di servizio: solo pochi cenni, perlopiù derivanti dall'arredo mobile, segnalano qui il pranzo, e là il focolare, qui il relax, e la il sonno. Tutto vi è mischiato. Come possa praticarsi agevolmente, e soprattutto piacevolmente, una cucina che dà le sue spalle alla luce e che costringe a cucinare senza poter guardare, appunto, verso l'esterno? Come possono dirsi comodi gli spazi destinati ad un soggiorno concepito come fosse un padiglione espositivo? Perchè posizionare il caminetto dalla parte opposta degli esterni, così da impedirsi il godimento del panorama mentre arde la fiamma? Occorre ben tener presente che, nelle ore serali e notturne, gli interni della casa riflettono sui cristalli perimetrali così impedendo totalmente la visione dell'esterno, a meno di non invertire totalmente l'illuminazione interno-esterno, a discapito del primo, per incentivare il secondo. Decisamente diversa è la situazione durante il giorno, specie col bel tempo, ove diventa assai gradevole, dall'interno della casa, la visione degli esterni. Ma con quale tempo, ed in quali stagioni? Certo non quando fuori infuria un temporale (potete solo immaginarvi la situazione?), oppure nei mesi invernali (sembra che nella casa si soffrisse molto il freddo, dato che il massimo spessore delle vetrate, allora, fosse di 5 millimetri, quello appunto adottato da Mies, e non esistendo ancora il vetro doppio isolato), o nei mesi estivi, dei cui fastidi già più sopra abbiamo fatto cenno (la casa si trasformava letteralmente in un forno).
Crediamo che, l'immenso successo che la casa Farnsworth, così da farla entrare nella storia dell'architettura moderna come un capolavoro, possa unicamente spiegarsi con  la tendenza agiografica che la storiografia ha adottato, rispetto alla capacità dei suoi autori di immaginare e rappresentare la qualità unicamente come nuovo, e il bello come criticamente collocabile in un'area astratta nella quale l'evento di novità corrisponde a una pura espressione artistica senza altro fine che l'estetica pura. Oggetti da ammirare, e della cui bellezza bearsi, senza neppure pensare un momento che devono anche essere vissuti, oppure dando a quest'ultima componente un ruolo marginale. Oggetti da fotografare per essere pubblicati su riviste a larga diffusione od inseriti nei libri di storia dell'evoluzione del gusto.
Alcune domande a Mies: quella cucina, che lei ha voluto peraltro tanto preziosa da doversi scontrare con la committente circa il suo costo, non sarebbe stata preferibile se inserita trasversalmente al corpo-servizi, così da poterla utilizzare colloquiando con i commensali, potendosi godere in quel mentre la vista del parco, e potendola in tal modo anche magari meglio ventilare?
Un aspetto della casa meno simile ad una sala d'aspetto aeroportuale, o d'un ufficio di rappresentanza, non avrebbe consegnato alla sua committente maggiori conforts psicologici?
Senza voler entrare poi nelle questioni ergonomiche degli stessi arredi che lei stesso ha disegnato, e nella loro essenza squisitamente aderente al minimalismo programmatico del quale lei è stato autorevolissimo propugnatore, la loro risicata quantità ed il loro posizionamento necessariamente così preciso ed in punta di piedi non rischia di creare disagio bloccando la spontaneità di comportamento degli eventuali ospiti, se non quello stesso di chi vi abita, sia pure colui che, avendo voluto ed approvato tale ambiente, ha deciso di "mettersi in vetrina", esaltando quanto più fosse possibile il suo indiscutibile egocentrismo?
Non a caso l'esempio fu subitaneamente seguito da quel pubblico trionfo d'autostima che era Philip Johnson, allievo di Mies e futuro guru dell'architettura americana, che nella sua Glass House a New Canaan, fece, per se stesso, una scelta pressochè identica.

Enrico Mercatali 

Ambiente etereo, sopraelevato dal terreno, senza basi o fondamenta, né radici con la terra o la tradizione. La pretesa leggerezza di questa edificazione non si armonizza con l’ambiente troppo razionale e controllato che la circonda.
Gli aspetti psicologici connessi a questa costruzione si legano a un fortissimo e invasivo passaggio di Qi Universale, che si manifesta nel disagio provocato dalla totale mancanza di intimità e protezione.

Gli ambienti sono totalmente esposti in una totale continuità fra dentro e fuori, non c’è alcun luogo di questo ambiente in cui sentirsi “in utero” e ogni cambiamento atmosferico, dalla pioggia al sole cocente, è sicuramente controllato con un grande consumo d’elettricità se non sono previsti pannelli solari sul tetto.

Ambiente adatto a ristorante o come padiglione estivo.

Vanessa Passoni



Qui sopra tre immagini degli ambienti principali di Fallingwater (1935-39) di Frank Lloyd Wright, presso Bear Run in Pansylvania


Fallinwater   (1934-37)

Frank Lloyd Wright

Fu questa casa, che l’architetto americano costruì proprio sopra a una cascata, nel folto dei fitti boschi presso Mill Run, in Pensylvania, tra il 1934 e il 1937, a mettere in diretto contatto critico le nuove teorie architettoniche che si erano sviluppate in Europa, ad opera specialmente di Le Corbusier, con quelle americane, il cui massimo esponente del momento, Wright appunto, le aveva fatte discendere direttamente da quelle di Henry David Thoreau e di  Ralph Waldo  Emerson, e, tramite Louis Sullivan, a quelle di Walt Withman. 

Ma le differenze tra queste e quelle teorie dovevano restare comunque notevoli, nonostante  l’architettura moderna occidentale stesse per entrare nella sua età matura:  nella casa sulla cascata, Wright elabora un edificio che sà stupire il mondo, sia per le sue arditezze strutturali che per la giustapposizione dei propri volumi puri, per la prima volta scevra da ogni simmetria e da ogni  tipo d’ornamento esteriore, in un ambiente totalmente naturale, cosa quest’ultima del tutto nuova nella sua architettura fin lì conosciuta. Ciò che accomunava questa architettura a quella europea, e corbusiana in particolare, era appunto la totale libertà da ogni schematismo di pianta e di facciata nonché la liberazione da vincoli compositivi che facessero pensare a elementi del passato. Ma restavano enormi però anche le differenze. Tra queste la principale era, per Wright,  che l’architettura dovesse fare riferimento diretto ed esplicito al sito, divenendo organica ad esso, ossia adattarvisi, ed addirittura ispirarvisi, alle condizioni orografiche, climatiche, culturali del suo intorno, mentre, si sa che in Europa, e non fu certo Le Corbusier il primo anche se uno dei suoi maggiori sostenitori, l’architettura doveva essere espressione di un nuovo internazionalismo, basato su criteri di molteplicità e ripetibilità, esattamente come avveniva nel campo delle macchine e di tutto quanto veniva prodotto dall’industria, standardizzando quanto più fosse possibile i propri componenti, e prefabbricando il più possibile ogni sua parte. Se in Europa la “machine a habiter”, attraverso la corrente funzionalista del Razionalismo internazionalista, poteva collocarsi indifferentemente in ogni luogo, in città, al mare o in alta montagna, costruendo così, all’interno di questa griglia metodologica, anche i valori una propria “scena poetica” derivata proprio dalla forte contrapposizione tra la bianca stereometria modernista ed il suo rapporto coi luoghi, naturali o storici, in America restava invece sempre preminente la logica derivante da una bellezza che traesse la propria  origine dall’adattamento al luogo stesso, e dalla capacità che l’architettura aveva quasi di mimetizzarsi in esso, e di amalgamarsi a quanto di esso aveva di maggiormente impattante sui sensi dell’uomo, vuoi la natura selvaggia, vuoi l’ambito urbano, vuoi quello agricolo.. Un approccio quindi completamente diverso coi luoghi: se quello europeo gli eventi naturali si ritenevano domati tanto da poterne usufruire finalizzandoli alla salubrità e al benessere fisico, negli Stati Uniti se ne esaltavano ancora, romanticamente, gli effetti sulla psiche, cogliendovi l’influsso positivo sull’uomo che,  per quanto di  irrazionale e mistico, la natura sapeva sempre evocare, entro uno spirito di scoperta e di adattamento.

Fallingwater fu realizzata per il magnate dei grandi magazzini Edgar J. Kaufmann, ambìto committente d’architetti (sua anche la casa che fece erigere da Richard Neutra a Palm Springs nel 1946). Forse la “Casa sulla cascata”, l’architettura più pubblicata del moderno, appena realizzata travalicò  l’ambito specialistico per divenire icona stessa delle nuove frontiere dell’arte americana. Se i suoi piani sbalzati a pelo d’acqua seppero immediatamente conquistare gli elogi della pubblicistica di mezzo mondo, per le loro affascinanti e cristalline geometrie, altrettanto dicasi dei suoi lussuosi interni, tanto “americani” nel loro tradizionale giustapporsi di materiali e di colori naturali, quanto capaci di proiettare in essi l’intero sogno americano d’una esperienza  d’avventura.

Riguardando l’ambiente che si vive in Fallingwater, cercando di respirare l’aria che vi circola e che mescola così intensamente gli interni con gli esterni e viceversa, scrutando negli angoli della casa e dei suoi ampi locali si può essere certi di una cosa: viverne i suoi spazi deve essere una esperienza intensa, come molti dei suoi visitatori hanno dichiarato dopo esservi stati a seguito delle recenti ristrutturazioni in funzione museale, al limite d’una esaltazione tutta particolare. I suoi proprietari ne furono entusiasti non appena ne presero possesso, come dicono le cronache, ma va anche detto che se essa fosse stata una casa d’abitazione, anziché un rifugio da week-end, tutto espressamente giocato sull’avventuroso rapporto con lo scorrere dell’acqua a partire dall’appesa scaletta sottostante fatta apposta per tuffarvisi dentro,  come voluto dai committenti fin dall’attribuzione dell’incarico, essa sarebbe certamente stata un fallimento. Gli interni, di smisurata ampiezza (esaltati da un anomalo rapporto con la scarsa altezza dei locali) sono forse solo una vetrina per le ambizioni di Edgar e della sua famiglia, il trionfante caminetto ed il relativo gigantesco bollitore dell’acqua, fondato direttamente sulla roccia che trasforma il ruscello in rumorosa cascata, altro non è che la trasposizione teatrale in versione aggiornata d’un pionieristico bivacco d’emersoniana memoria, cui fa da contraltare una decorazione interna ancora soverchia ed inutile, densa di modanature lignee di forte spicco, capaci di drammatizzare ulteriormente ciò che già appare ansiogeno di suo. Crediamo non fossero possibili sonni tranquilli in quella casa, e forse neppure un sereno rapporto con la sua circostante natura. Non sappiamo nulla circa l’uso che i proprietari ne fecero col tempo. Sappiamo però che, per le altre loro case, cambiarono architetto.

Enrico Mercatali


La peculiarità di questa casa è l’essere direttamente costruita sopra un corso d’acqua.
L’acqua ha una memoria molecolare, organizzata in cluster, che è in grado di influenzare l’ambiente circostante modificando i programmi biologici di tutti gli esseri viventi. Vivere nei pressi di un corso d’acqua necessita per cui di accortezze precise.

Viverci sopra, e aggiungervi inoltre la vitalità impetuosa di una cascata, necessita di ulteriori maggiori precauzioni che solo la forma massiccia e rettangolare del terrazzo protegge in parte. La casa è infatti inglobata in un terreno roccioso e i molti minerali presenti  entrano in inevitabile risonanza con gli effetti causati dall’acqua e amplificati dalla cascata.

In questo modo si riversa uno Yin-Yang molto forte e archetipico verso l’abitazione.

In Oriente sarebbe impensabile edificare un edificio con queste caratteristiche senza prevedere armonie funzionali che permettano all’energia Qi, prodotta dal potente flusso dell’acqua, di ascendere verso l’alto. Una “fortezza” come questa sarebbe considerata luogo esclusivamente adatto alla raccolta di truppe militari e animali.

Vanessa Passoni







Qui sopra tre angoli di servizio delle tre case esaminate, assai più significative degli ambienti principali per capire le tre diverse personalità dei rispettivi architetti e per entrare maggiormente nel vivo dello spirito che ha animato i loro differenti approcci architettonici. nella villa corbusiana il bagno presenta il primo tentativo di concepire gli spazi della toilette in modo meno misero e strattamente funzionalista, in una fase storica nella quale scarsissima attenzione veniva concessa a tali locali, se non nelle case dell'aristocrazia o dell'alta borghesia industriale. Tentativi d'espressione cubista ammiccanti ad un domestico benessere corporeo ancora non entrato in uso corrente. Veramente scadente la concezione miesiana dello spazio-cucina, visto come puro luogo di transito, capace solo di far rimpiangere le care vecchie grandi cucine della tradizione mitteleuropea, ove si cucinava ed anche si stava per pranzare. Vince qui la concezione americana del "cook and ride", magari per preparare frequenti drinks da consumare sui divani. Più intimo ancora invece il richiamo americano alla tradizione del cenare in luogo rustico, concentrati attorno alla tavola familiare. Ma perchè tanto impegno nel collocare la casa nel punto più panoramico e selvaggio della regione, dentro alla foresta e sopra la cascata, per poi vedersi costretti a cenare senza neppure una finestra, circondati da pareti che sembrano quelle d'una caverna? Se fosse ancora vivo Bruno Zevi rivolgerei a lui questa domanda.

Le tre case di cui qui si è parlato costituiscono, ognuna per sè, un manifesto della nuova frontiera architettonica, un esempio di cosa poteva dire e fare il nuovo linguaggio del costruire, tra gli anni '20 e '30, quali soluzioni innovative nell'intendere un più ampio rapporto uomo-natura nell'abitazione privata. Confrontando il panorama architettonico dell'epoca in cui queste case vennero costruite dobbiamo continuare a dire che esse furono davvero un salto verso il futuro, assai più di quanto non riescano ad essere gli esempi  dell'odierna avanguardia. E' chiaro però che in essi sussistono anche i difetti dei quali qui abbiamo voluto dire, anche perchè è davvero difficile, e forse impossibile, concepire innovazione che sia al contempo di forma e di contenuto, in modo totalmente esaustivo rispetto alle molteplici esigenze che da essa se ne voglia trarre. Trattasi dell'eterno dissidio tra professionista e committente, il quale, solo rarissimamente, innesca processi di reciproca stima e collaborazione. Ma in tali casi, quasi inevitabilmente, vengono a mancare, nell'opera finita, i caratteri distintivi di una autentica innovazione.



per Taccuini Internazionali
Enrico Mercatali e Vanessa Passoni
Milano, 4 luglio 2012
Aggiornato il 26 marzo 2013

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