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30 November 2012

Capogrossi alla Guggenheim di Venezia. Approfittiamo per rivedere "Casa Peggy" e la sua splendida collezione d'arte (di Enrico Mercatali)



 C  A  P  O  G  R  O  S  S  I
  alla Guggenheim di Venezia



rivisitando Casa Peggy 
e la sua imponente collezione d'arte

Il Grande Arazzo che introduce alla mostra veneziana. Nelle foto qui sopra come appare l'arazzo che Capogrossi realizzò negli anni '60, all'ingresso degli odierni spazi espositivi per le mostre a tema, e sotto come appariva in un arredo d'epoca nel quale faceva da protagonista, pur essendo lo sfondo di un servizio fotografico per l'alta moda.


E' un evento, questo della mostra di Giuseppe Capogrossi, i cui manifesti dominano nelle strade di Venezia, mentre è quasi alla fine la Biennale Architettura.
Una occasione importante, inoltre, dovuta al fatto che da tempo non vedevamo in circolazione, di questo autore, alcuna opera significativa se non  fosse stato  per  quella importantea  apparizione all'Arca vercellese, anch'essa curata da Luca Massimo Barbero, che lo aveva posto al centro di una collettiva d'analogo ceppo, proveniente infatti proprio,  anche in quel caso, dalla collezione della Peggy Guggenheim Foundation (che con l'Arca ha in corso una interessante forma di collaborazione).



Giuseppe Capogrossi, in un ritratto del 1960, davanti ad una sua riconoscibilissima sigla,  di grande formato.


E' importante, l'evento di cui stiamo parlando, perchè il nome attorno al quale è organizzato, è sicuramente un grande nome dell'arte contemporanea italiana, destinato a crescere ulteriormente, per la sua ricca trama di connessioni che ha saputo alimentare coi circuiti internazionali pubblici e privati, e per la sua intrinseca complessità, pur compresa entro binari espressivi solo apparentemente semplici e perfino essenziali.


Giuseppe Capogrossi, "Giocatore di ping-pong", del 1931




Le opere qui sopra riportate (tutte ad olio su tela, realizzate nel '33), che Capogrossi realizzò agli esordi della sua attività artistica, e precedenti al 1941, anno della grande svolta stilistica, sono tutte esposte nella mostra veneziana: "Il temporale", "I canottieri", "Festa sul fiume", "La piena sul Tevere".


L'Evento-Capogrossi diventa molto attrattivo, in una Venezia che contemporaneamente vanta decine di altre importantissime manifestazioni nel suo centro storico, anche per l'inevitabile visita periodica  a Casa Peggy, che così diventa quasi tappa obbligata. Anche il turista non proprio addetto ai lavori, vi trova così spunti di eccitante venezianità. E così qui la mostra del meastro romano si colloca benissimo. Diventa però utile, per chiunque si accosti a questa mostra, una nota critica approfondita almeno quanto basti a comprenderne i passaggi principali, non fondamentale comunque ad assaporare le opere esposte anche solo nel loro semplice porsi all'occhio del visitatore che ne cerchi anche soltanto un puro piacere visivo, fatto di forme e colori di modernità, al di là d'ogni possibile pregiudizio estetico, ma desideroso di accostare soltanto pura e semplice bellezza pittorica.



Qui sopra il curatore della mostra, Luca Massimo Barbero, curatore anche del catalogo edito da Marsilio Editore, dietro al quale campeggia una grande opera di Capogrossi. Barbero è stato anche curatore della mostra tenutasi all'Arca di Vercelli nel 2011 (da Taccuini Internazionali recensita) che raccoglieva buona parte delle migliori tele della fondazione Peggy Guggenheim., provenienti da Venezia. Anche in quell'occasione protagonista della mostra fu una grande tela capogrossiana, posta proprio al centro della sala espositiva principale, capace di catalizzare l'interesse del pubblico, non solo per la sua non insolita straordinaria dimensione, ma anche per la sua grande qualità intrinseca, dotata di una, sì davvero insolita per l'autore,  multidimensionale componente prospettica. E' stato forse Barbero per primo a voler sottolineare, ad un pubblico e ad un a critica fin qui convinta dell'essenza assolutamente  piatta e grafica di questo autore, quanto invece dovesse essere ribaltato tale superficiale giudizio, cosa che, nella mostra veneziana, appare come la principale novità del nuovo corso critico con il quale guardare a questo artista.



Giuseppe Capogrossi, "Le due chitarre", 1940 (sopra), e "Superficie 021" (sotto), 1941.
Il cambiamento stilistico nell'arte del pittore romano avviene tra il 1940 e il '41, data quest'ultima nella quale viene abbandonato ogni riferimento alla realtà visibile per approdare alla pura astrazione del segno archetipico, quello che contrassegnerà la cifra dell'artista per tutto il resto della vita, sul cui significato si sono cimentati ed ancora si cimentano i maggiori critici dell'arte (allora Giulio Carlo Argan, oggi Achille Bonito Oliva). Già nel quadro "Le due chitarre", tributo a Cezanne, ultimo dei quadri che ruotano attorno al Realismo Magico della Scuola Romana, la fitta rete di linee che segna la struttura compositiva prelude alla grande rottura subito successiva, nella quale, ad interessare l'autore, ormai è solo la superficie segnica della trama che sorregge ogni elemento della realtà, più che la realtà stessa, l'invisibile maglia che "recinge spazio e tempo nell'istante iconografico del segno-archetipo". Come sostiene A.B.O. è proprio quest'ultimo che avvia la fortunata serie delle "Superfici" che faranno scalpitare per averle molti collezionisti d'oltre oceano, tra cui lo stesso David Rockefeller.




"Superficie 219" del 1957


 L'artista ha in effetti esercitato non poche volte la curiosità di chi volesse conoscere il significato dei simboli che vi sono espressi con tanta quasi monotona pervicacia. Ma non è stato dato sapare, mai, ciò che ha invece esercitato numerosi tentativi da parte di critici anche assai quotati, di fronte al mistero di certi segni così costantemente ripetuti non solo nel singolo quadro, non solo nel singolo periodo della vicenda artistica, ma lungo l'intero arco della medesima in modo peraltro capace di non escludere nulla, ma semai esaltare, il senso di una ricerca artistica "a tutto campo", perseguita dal loro autore con intento autenticamente esplorativo.



"Superficie 406" e "Superficie 399", entrambi del 1961.



Sopra: il gallerista milanese Carlo Cardazzo, grande organizzatore di eventi legati alla figura di Giuseppe Capogrossi, specialmente a Milano, qui con l'attrice Sofia Loren e, sullo sfondo, un'opera dell'artista della scuola romana. Fu Cardazzo a decretare per primo il lancio internazionale di capogrossi, che divenne, già negli anni '50, il primo artista italiano ben conosciuto all'estero, specialmente negli Stati Uniti d'America.



Molta critica ha azzardato spiegazioni circa la cifra artistica capogrossiana del "forchettone", o del "pettine", come popolarmente venivano chiamati quegli strani segni che instancabilmente l'artista proponeva, nelle molteplici e pure interessantissime composizioni che le comprendevano. Giulio Carlo Argan, negli anni '50,  vi aveva visto un segno d'orizzonte, nella parte curva, e la traccia d'una indicazione prospettica nelle gambe centrali, una simbologia capace di sintetizzare tutto ciò che occorre per circoscrivere il reale. Achille Bonoto Oliva, invece, oggi vi vede una "vera e propria figura, per riconoscibilità e classica semplicità, che abita le superfici, assumendo anche i travestimenti decorativi dell'ornamentazione". 




Un segno, secondo A.B.O., che "racchiude in sè una tensione verso la totalità e l'autosignificazione: esso contiene in sè tutte le forme più primitivamente germinali (linea retta, circolarità, segni a punta scoccati come dardi)". In entrambi i casi vi viene riconosciuta l'importanza di un archetipo. Dice ancora Bonito Oliva in un articolo su La Repubblica (21 ottobre 2012): "Così la cifra assume il carattere del Mitéma, un'unità segnica tracciata dall'artista che non deve spiegare il suo significato, perchè sta nell'atto steso del tracciare, come nell'atto dell'esistere. L'icona mitica assorbe ogni altra temporalità che governa il mondo.


Enrico Mercatali 
Venezia, novembre 2012
(le foto sopra e sotto al titolo sono di Enrico Mercatali) 


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